giovedì 22 ottobre 2020

IL BUONO E IL GIUSTO

 IL BUONO E IL GIUSTO.



Qualcuno dice che ognuno di noi nasce per portare qualcosa su questo Pianeta. Per questo ci sono tanti tipi di persone, ognuno con un proprio carattere, con i propri talenti e tante qualità sia nel bene che nel male. Un giorno nacquero due gemelli che vennero chiamati Buono e Giusto. Come ogni bambino crescevano bene ed erano così diversi l’uno dall’altro, non sembravano nemmeno gemelli.

Buono era molto grazioso, amava incondizionatamente tutto e tutti, accettava anche rimproveri e ingiustizie pensando che lui non era come chi lo dileggiava. Era buono d’animo e tutti lo amavano.

Giusto era invece più sanguigno, a differenza del fratello non si sottometteva a niente che non ritenesse corretto e onesto. Era disposto anche a lottare per quello che riteneva corretto, lottava e spesso ne usciva malconcio ma non deviava mai dalla sua visione.

La madre li osservava, erano entrambi suoi figli e ne vedeva le differenze. Buono avrebbe avuto una vita più pacifica, aveva insita in lui la bontà che sopporta ogni cosa, preferiva non discutere e sorrideva serafico anche a chi lo dileggiava. Giusto non si sarebbe mai sottomesso a niente e a nessuno, aveva i propri principi che lo guidavano fin dalla nascita e la sua vita sarebbe certamente stata più burrascosa che pacifica. La donna sospirava ogni volta che si soffermava a scrutare i suoi figli, li vedeva crescere e osservava le loro differenze e si chiedeva chi dei due avrebbe, alla fine avuto ragione.

Essere Buono o essere Giusto? Quale dei due? Lei li avrebbe amati entrambi ma la vita non era facile e sapeva che avrebbero sofferto: Buono, col suo carattere accomodante non sarebbe mai stato felice fino in fondo, si sarebbe accontentato ma avrebbe vissuto senza provare grandi emozioni. Giusto col suo carattere fiero e intransigente non sarebbe mai stato felice, avrebbe vissuto continuando a battersi senza abbassarsi a compromessi, lottando contro le ingiustizie.

Uno aveva un viso dagli occhi dolci, l’altro aveva lo sguardo della tigre. Il Buono e il Giusto, perché non potevano fondersi fra loro? Dopotutto erano gemelli e si potevano completare a vicenda, ma non avvenne mai. Chissà come sarà stata la loro vita? Voi cosa ne dite?

racconto di Milena Ziletti- diritti e proprietà a lei riservati - immagine dal web

lunedì 19 ottobre 2020

GIUSTIZIA E INGIUSTIZIA

 GIUSTIZIA E INGIUSTIZIA

 



Da quando è nata l’umanità, il mondo si è sempre diviso fra GIUSTIZIA e INGIUSTIZIA. Già l’omicidio di Abele è stata un’INGIUSTIZIA, dove era appena nato il Pianeta sembrava che il più forte e il più cattivo avesse ragione. Le due “fazioni” si sono sempre contrapposte e dopo millenni niente è ancora cambiato. La GIUSTIZIA oppone AMORE all’ODIO dell’INGIUSTIZA, GENEROSITA’ alla AVIDITA’, PACE alla GUERRA, TOLLERANZA alla IRREMOVIBILITA’, COMPASSIONE al DISPREZZO,  CONDIVISIONE all’EGOISMO e così via. Non esistono religioni che possano insegnare cosa è GIUSTO e cosa è SBAGLIATO, non esistono profeti che possano inculcare come vivere nel BENE o nel MALE. Esistono esempi da seguire, sono quelli che il nostro cuore sa distinguere nel marasma di questo mondo. GIUSTIZIA e INGIUSTIZIA calpestano questo pianeta fin dalle sue origini, ed è giusto che sia così. Così come sono passati miliardi di esseri umani e alieni ed hanno lasciato le loro impronte sia nel BENE che nel MALE, e la storia che noi conosciamo lo insegna molto bene. Dovremmo avere capito da che parte stare, invece la millenaria lotta non si è ancora estinta. Serviranno altri millenni e miliardi di persone prima di comprendere cosa è bene e cosa è male? Osserviamo la bilancia e vediamo da che parte pende. Ops! Ma tu, su quale piatto stai?

mercoledì 14 ottobre 2020

LO SPECCHIO

 

LO SPECCHIO




E’ davvero incredibile sostare davanti allo specchio e osservare il mio viso. Non so se dipenda dal fatto che sia ancora sotto incantesimo, ma quello che vedo riflesso non è il viso di una vecchia signora ma il sorriso di una bambina scatenata col dente scheggiato. Di due occhi verdi, vispi e sempre attenti, di un viso paffutello su un corpo mingherlino che non riusciva a stare fermo. Si riflettono entrambe, la bambina e la vecchia signora, si osservano e si parlano. “Sono proprio io?” sussurra la bambina osservando le mie rughe e i capelli freschi di tinta. “Già, piccola peste, sei proprio tu.” Mi sorride e mette in mostra la fessura fra gli incisivi da latte. “Cosa ti passa per la testa?” Le chiede la vecchia signora. I suoi occhi verdi e vispi ridono prima delle labbra. “Ecco, non immaginavo che sarei diventata così! Mi piace quello che vedo.” Per un attimo ho pensato che mi avrebbe dato una delle sue risposte irriverenti ma sempre intelligenti. Tiro un sospiro di sollievo. “Vorresti ritornare ancora bambina?” Mi chiede. Già, bella domanda! Ognuno di noi ha dei ricordi, delle speranze mai avverate, nostalgia di quello che erano i sogni che, fatalmente la vita manda in frantumi. Ripianti? Oh sì, col senno del poi tutto appare diverso, ma davvero vorrei tornare indietro? Ripenso a quanti sogni avevo, alla voglia di emergere, volevo perfino essere un maschio e come tale mi vestivo e comportavo. E mentre gli anni mi portavano verso l’adolescenza e il corpo prendeva le forme giuste e i ragazzi cominciavano a guardarmi in un modo diverso, beh, tutto è cambiato. La vecchia signora ricambia il sorriso, soltanto le rughe intorno alle labbra fanno notare la differenza. “Piccola peste, non voglio tornare indietro, tu non te ne sei mai andata, sei sempre qui, dentro di me e tieni vispa la mia mente, non mi permetti di invecchiare, di peggiorare, riesci a mantenere sempre il mio animo di bambina, coi sogni e le avventure che inventavi fin da quando sei nata. Facciamo un patto: tu non mi lascerai mai ed io non lascerò mai te.” Un grande immenso sorriso ha rischiarato lo specchio. Mi sono ripresa le mie rughe, il mio corpo invecchiato ed ho chiuso nel cuore la piccola peste,sarà sempre lei a tenermi accesa la fiamma della voglia di vivere.

racconto di Milena Ziletti - diritti e proprietà a lei riservati

martedì 13 ottobre 2020

BIANCA - SECONDA PARTE

 BIANCA

parte seconda




Avevo cominciato a prendere strane abitudini. Per esempio, volevo vestirmi solo di bianco e, questo era un problema, ma mamma mi cucì camicioni e grembiuli con vecchie lenzuola, ed in inverno usava lana non tinta. In questo modo mi sembrava di essere più pulita, perché continuavo a sentire il mio corpo sudicio. Poi avevo imparato a parlare sottovoce, così la mia balbuzie si notava di meno e io stessa la sopportavo di più. Poi un bel giorno presi le forbici e mi tagliai i capelli rossi. Se quelli erano stati l’origine dei miei problemi e dei miei incubi non li volevo più.

Quando la mamma mi vide con i capelli così rovinati non seppe se sgridarmi o consolarmi. Da un po’ di tempo andavo ripetendole che non volevo più i capelli rossi, ma lei non sapeva come accontentarmi, così ci pensai da sola. Dovevo sembrare uno spaventapasseri fuori sotto il portico con un camicione informe bianco e quei capelli così rovinati, e lo sguardo della mamma era colmo di rabbia e di dolore. Si affrettò a mettermi in testa un fazzoletto e mi disse che ero bellissima.

Il tempo, inesorabile, continuava a trascorrere. Io crescevo e anche Angela si faceva signorina. Vedevo il suo corpo trasformarsi, ed io tremavo al pensiero che poi sarebbe successa a me la stessa cosa. Io non lo volevo, ma non sapevo come fermare quel cambiamento inevitabile.

Mentre Angela era tutta contenta di quello che il suo corpo stava compiendo io ne ero terrorizzata. Avevo i capelli rossi, se poi mi fosse cresciuto anche il seno sarei stata per sempre una puttana. Adesso sapevo cosa significava  quella parola.

Cominciai così a mangiare sempre di meno, sperando di rimanere magra e secca come un’asse. Cominciai ad odiare il mio corpo, avevo undici anni, ed il cambiamento era inesorabilmente cominciato. Avevo visto come era successo con Angela e sapevo bene cosa mi aspettava. Vedevo mia sorella felice e gli sguardi che i ragazzi cominciavano a lanciarle, ed io non capivo il suo buonumore: io non avrei voluto per me degli sguardi simili. Quei due piccoli occhi scuri che scrutavano e toccavano il mio corpo di bambina, ancora mi tormentavano.

Quell’anno, nonna morì. Era usanza vestirsi di scuro per il lutto, ma io non ci riuscii mai. Non l’amavo, provavo nei suoi confronti tanto risentimento, e non mi importava nulla se era morta. Forse, provai addirittura sollievo.

Anche al funerale spiccavo fra tutti, unica persona vestita di bianco in mezzo a tanto nero.

Da parecchio ero considerata un po’ strana: parlavo sempre balbettando sottovoce, vestivo solo di bianco, ero magrissima e coprivo i capelli. Pensai che con la sua morte la nonna aveva risolto tutti i suoi problemi, e forse, poteva essere una soluzione anche per me. Fu solo il pensiero di un attimo. Io amavo la vita, la mia famiglia, i miei animali. Odiavo solo il mio corpo e facevo di tutto per tenerlo nascosto.

Una sera, a letto, Angela mi prese la mano. “Bianca ti devo parlare” mi disse. “Oggi Giuseppe mi ha detto che sono carina, mi ha preso la mano e l’ha baciata. Io mi sono innamorata di lui e non vedo l’ora di poterlo sposare e stare sempre con lui, ma tu, non dirlo ancora a nessuno.” Un brivido mi percorse tutto il corpo e lei se ne accorse. “Bianca, io non te l’ho mai chiesto, ma tu, vuoi raccontarmi cosa ti è successo?”

Mi girai verso di lei, posai il mio viso sulla sua spalla e le raccontai tutto. Era la prima volta che davo voce a quegli episodi. La sua mano stringeva la mia sempre più forte e, alla fine, ci trovammo abbracciate ed unite come mai in passato era successo.

“Ora capisco tante cose” mi disse, “capisco perché zio Orso vive nella stanza sopra il pollaio, perché la mamma sembrava diventata un generale e la nonna zittita così bruscamente. Bianca, io manterrò il tuo segreto, ma tu, cosa vuoi fare della tua vita?”  “E’ questo che non so. Quello che so per certo è che non voglio essere toccata da nessun ragazzo e che sono destinata a rimanere zitella. Già ora molti ridono di me, dei miei comportamenti ma io, al solo pensiero di essere toccata da un ragazzo mi sento male. Tu mi chiedi cosa voglio dalla vita? Io non lo so, vorrei diventare invisibile.”

Ci addormentammo abbracciate, e da quel momento diventasti la mia sorella protettrice, la mia custode, e anche tu cambiasti atteggiamento nei confronti di zio Orso e del nostro babbo.

Mamma capì che ora anche tu sapevi e diventaste i miei angeli custodi.

I nostri fratelli mi avevano sempre accettata, ero solo una sorella un po’ strana, che parlava con i suoi animali, che usciva pochissimo, ma buona e generosa con tutti.

Il babbo non mi disse mai niente. Delegò sempre la mamma, sembrava avere paura che, qualsiasi cosa dicesse o facesse, io potessi fraintendere, e da lui non ebbi mai nessun gesto affettuoso. Era il suo modo di dirmi che mi voleva bene.

Il tempo passava e vedevo Angela felice delle sue scappatelle con Giuseppe. Una sera, a letto, mi chiese: “Bianca, vuoi ancora diventare invisibile”? Io feci cenno di sì, senza sapere cosa intendesse. E continuò “forse ho trovato la soluzione. Se il tuo desiderio è sparire perché non entri in convento? Magari quello di clausura che c’è poco distante da qui, cosa ne pensi?” Rimasi in silenzio assimilando quella proposta. Non ero particolarmente religiosa, non avevo la vocazione, , ma la cosa mi interessava, poteva essere la soluzione ai miei problemi. “Lascia che ci pensi” le risposi.

Angela aveva diciassette anni ed era uno splendore. Io, al contrario di lei, sembravo uno stambecco bianco. Lei non mi raccontava dei suoi incontri segreti con Giuseppe per non turbarmi, ma io vedevo la sua felicità, felicità che a me faceva paura, anzi terrore e, allora, mi decisi.

Parlai con mamma e le dissi che volevo diventare monaca di clausura e lei si mise a piangere. Sapeva che mi avrebbe persa per sempre.

Non avevo ancora compiuto sedici anni quando mamma e Angela mi accompagnarono al convento. Mi avevano preparato un piccolo corredo personale, e fu tutto quello che portai da casa. Quando le salutai sapevo che la mia vita, da quel momento non sarebbe più stata la stessa. Abbracciai prima Angela e le augurai tanta felicità. Poi abbracciai lungamente mamma, che non versò una lacrima e, al momento dei saluti le dissi “stai vicino al babbo, lui non ha colpe”, e varcai quel portone.

Come furono difficili i primi tempi! Mi mancava molto la mia famiglia, il vociare dei miei numerosi fratelli, la vicinanza di Angela di notte che ora trascorrevo da sola, i miei gatti. Quel nuovo posto era così silenzioso, rigido, pieno di regole da rispettare e di lavori da svolgere. Ogni mese ricevevo una lettera dalla mia famiglia, ed era tutto quello che mi era permesso.

Passò del tempo, e un po’ alla volta mi ambientai. Cominciai ad essere più serena e ad amare tutto ciò che facevo. Ero circondata da tanto affetto e amore e alla fine, fra quelle alte mura chiuse al mondo, finalmente, mi sentii LIBERA e felice.

 

Ora io, Angela, voglio aggiungere qualcosa su mia sorella.

Bianca era molto riservata, timida e chiusa di carattere. Mi sono molto sorpresa che abbia voluto raccontare la sua storia, è stata molto coraggiosa a farlo, io non ci sarei riuscita. Bianca non fu violata nel corpo ma la sua mente rimase ferita da quanto le successe. Non vi ha raccontato della sofferenza del suo primo ciclo mestruale, pensavamo sarebbe morta: il sangue non voleva arrestarsi e, ogni volta era una tragedia; oppure di quando rivide per caso zio Orso e svenne di nuovo; oppure di quando Gustavo, un nostro vicino di casa le carezzò il viso e lei scappò e le venne la febbre. Queste e altre cose ancora lei non le avrebbe raccontate ma sono successe; ed ogni volta era una sofferenza immensa. Per questo le suggerii la clausura, anche se sapevo che l’avrei persa per sempre.

 

Mamma, poi, si riconciliò col babbo, e vissero il resto della loro vita con più serenità.

 

Io sposai il mio Giuseppe e la nostra prima figlia si chiamò Bianca.

 

Se mia sorella Bianca ha voluto scrivere la sua storia avrà avuto dei motivi, ma ce n’è uno importante, ne sono sicura ed è questo: “sappiate che dietro alte mura chiuse al mondo c’è un altro mondo che prega per tutto il mondo e vive una vita per tutti e non distante da tutti, noi siamo con la preghiera  sempre in mezzo a voi.”

 

Con amore fraterno BIANCA (con  Angela).

racconto di Milena Ziletti - diritti e proprietà a lei riservati

 

lunedì 12 ottobre 2020

BIANCA

 

BIANCA

prima parte



 

Mi chiamo Bianca e voglio raccontarvi la mia storia.

Sono nata appena dopo la prima guerra mondiale, ai piedi dell’Appennino Toscano. Devo il mio nome al fatto che quando nacqui tutto era ricoperto da un manto bianco di neve, e la mamma scelse quel nome, anche se la nonna voleva chiamarmi Candida. Ero la quarta figlia e, dopo di me, ce ne furono altri quattro. La mia era una famiglia numerosa: mamma, babbo, nonna, noi otto fratelli e uno zio scapolo fratello del babbo. Eravamo, come tante altre, una famiglia normale e in casa non c’era molta allegria. La mamma era sempre indaffarata e stanca. Il babbo si vedeva solo all’ora dei pasti, anche lo zio, perché lavoravano la terra e c’erano anche gli animali.

Quando ci mettevamo a tavola sembravamo una tribù, ma nonna non ammetteva nessun tipo di scompiglio quando si mangiava e sapeva maneggiare con sapienza una lunga verga sempre a disposizione.

Io ero l’unica dei fratelli ad avere i capelli rossi e mamma mi diceva che li avevo ereditati dalla sua bisnonna. Il viso con tante lentiggini e la pelle chiara: il mio nome, Bianca, mi si addiceva, ma a volte i miei fratelli mi prendevano in giro e mi chiamavano “Rossa”. Di tutti e otto eravamo solo due femmine, io e Angela , più grande di me di due anni. Dormivamo nello stesso lettuccio ed eravamo molto affiatate e, molte volte, eravamo costrette a coalizzarci contro i maschi.

Se ripenso a quei tempi ricordo alcune cose che rimarranno indelebili nella mia mente: i minestroni con quell’odore di cavolo che inondava la casa, oppure quelle forme gigantesche di pane che la nonna sfornava, oppure il rito del bagno da farsi ogni sabato, su questo la mamma non ammetteva trasgressioni. Le prime a lavarsi eravamo Angela ed io in quanto poi dovevamo asciugare i lunghi capelli davanti al fuoco in inverno, o sotto il portico in estate; poi toccava a tutti gli altri. Quanti secchi di acqua calda e fredda portavano avanti e indietro i miei fratelli e la mamma: il sabato lo avevamo soprannominato “la processione dell’acqua”.

E la domenica, immancabilmente, tutti a messa.

Io adoravo gli animali. Avevamo gatti, due cani, ma mi piaceva anche andare a vedere i coniglietti, i pulcini e mi spaventavano molto topi e bisce.

Avevo sette anni. Ero davanti alla gabbia dei conigli e ammiravo i piccoli nati da alcuni giorni. Erano così carini ed io parlavo con loro. Vidi entrare lo zio che noi tutti avevamo soprannominato “zio Orso”, perché era grande, aveva una folta barba, due occhi piccoli e scuri a parlava pochissimo. La nonna diceva che era il suo figlio sfortunato, perché aveva perso la fidanzata e non ne aveva più voluto un’altra. Non ho mai saputo se fosse vero o una storia inventata per giustificare un figlio scapolo. Mi rivolsi a lui “guarda zio come sono carini i coniglietti!” Lui mi venne vicino e li guardò. Poi guardò me. Mi guardava in un modo strano, i suoi occhi sembravano più grandi e mi accarezzò i capelli rossi.

Mentre mi accarezzava cominciò a slacciarmi i bottoni del grambiulino, me lo tolse e mi tolse tutto il resto. Io ero pietrificata! Cosa stava facendo? Non riuscivo a muovermi e non riuscivo quasi a respirare. Avevo la bocca spalancata dallo stupore e lo sentii dire:” Lo sanno tutti che le rosse sono delle puttane, e tu, non fai differenza.” Io non capivo cosa voleva dire ma avevo paura ed ero terrorizzata. Continuava ad accarezzarmi ed io piangevo lacrime silenziose. Dopo un po’ mi disse “Se lo dici a qualcuno ti ammazzo.” Mi rivestì, e uscì come se non fosse successo nulla. Rimasi ferma ed impietrita davanti alla gabbia dei conigli e non capivo ancora cosa mi era successo. Le lacrime si erano asciugate e corsi in casa. La mamma stava pulendo la verdura per il minestrone e non badò a me che corsi in camera e mi rifugiai nel mio letto.

Era quasi ora di cena e venne a vedere perché fossi ancora a letto. Non era da me, che ero una bambina vivace, e le dissi che non mi sentivo bene e che non volevo mangiare. Mi sentì la fronte e disse che non avevo niente, perciò dovevo andare a tavola con gli altri.

Mi sembrava che tutti mi guardassero in modo strano ed io non alzai gli occhi dal piatto. Non volli mangiare niente.

E quello fu l’inizio del mio cambiamento.

Nei giorni successivi cercai di comportarmi come al solito, ma ero molto più silenziosa, più tranquilla. Stavo molto con i miei gatti e parlavo con loro, non giocavo più nemmeno con Angela. Passarono alcune settimane ed io cercavo di dimenticare quello che mi era successo, per la verità non l’avevo nemmeno capito. Mi sembrava quasi di averlo sognato e, un po’ alla volta tornai ad essere come prima, anche se non completamente, perché c’era, comunque dentro di me, una certa inquietudine.

Dovevano essere passati almeno tre mesi quando tornai a vedere i coniglietti, ma non resistetti e scappai via subito.

Era domenica mattina ed ero in casa di sola, perché tutti gli altri erano alla funzione. Io non c’ero voluta andare perché non me la sentivo. Ero davanti al fuoco con in braccio un gattino e gli parlavo quando entrò zio Orso. Il sangue mi si gelò ed il gattino scappò via.

Mi sembrava di essere un pezzo di ghiaccio e cominciai ad avere paura. Zio Orso non si avvicinò questa volta, si sedette sulla sedia e si calò i calzoni: Io non avevo mai visto niente di simile e cominciò a toccarsi. “Guarda rossa puttana, è quello che farai nella tua vita, così puoi imparare prima!” Mi spaventai talmente tanto che caddi svenuta.

Mi risvegliai sentendo un panno fresco ed umido sulla fronte. Vicino a me c’era la nonna. “Come stai Bianca?” ma io non rispondevo. Guardavo fisso davanti a me e non parlavo. “Io so cosa ti è successo, ma tu, non lo devi dire a nessuno, hai capito Bianca? Se lo dici a qualcuno scaccerò te e tua madre da questa casa e non rivedrete più nessuno di noi e sarete costrette a chiedere l’elemosina per vivere. Hai capito bene Bianca? Se hai capito fammi un cenno.” Feci segno di sì con la testa e le dissi “vai via, voglio la mia mamma.” “Ricorda quello che ti ho detto” e se ne andò.

Avevo la febbre alta, deliravo e piangevo, era così che la nonna lo aveva saputo, anche se, secondo me, lo sospettava.

Angela vicina a me mi teneva stretta, mi cambiava il panno umido e mi diceva che mi voleva bene. Lei non sapeva quello che mi era successo, ma vedeva la mia sofferenza e cercava di confortarmi in tutti i modi. Rimasi a letto per una settimana, poi la mamma mi fece alzare. Ero molto pallida ed i capelli rossi spiccavano più del solito. “Come stai piccina?” mi chiese la mamma. Io l’abbracciai e le risposi “sto un po’ meglio mammina” e mi accorsi che non riuscivo più a parlare sciolta come prima: ero balbuziente. Mi misi a piangere e la mamma mi strinse a sé consolandomi come solo una madre sa fare. Credo avesse capito o sapesse cosa mi era successo perché mi disse “mai più nessuno ti farà del male, adesso ci sono io con te e non ti lascerò più”.

Da quel giorno non parlai più come prima, ero diventata balbuziente, così cercavo di parlare il meno possibile.

In casa si respirava un’aria diversa dal solito. I miei fratelli, pur non sapendo niente, si erano accorti che qualcosa non andava. La mamma non rivolgeva più la parola alla nonna e allo zio e, a stento, diceva poche frasi al babbo. Quando serviva la cena saltava sempre il piatto di nonna e zio oppure gli rovesciava addosso il cibo. Aveva la bocca serrata, come se avesse voluto dire o fare qualcosa ma non poteva e, molto importante, non mi perdeva mai di vista. Angela si guardava intorno senza darsi una spiegazione del cambiamento che era avvenuto.

La mamma e la nonna avevano litigato furiosamente ed io non avevo sentito quello che si erano dette, ma il risultato fu che la nonna fu relegata a sguattera di casa, le fu tolta la verga ed ogni voce in capitolo in famiglia, e zio Orso fu mandato a dormire fuori dalle mura della nostra casa. In tutto questo cambiamento, mio padre cercò dei chiarimenti e la sfuriata che gli fece la mamma lo ammutolì ancora più di prima. Ora la mamma li teneva tutti a bacchetta e nessuno dei grandi cercò di rivoltarsi: sembrava diventata una leonessa.

racconto di Milena Ziletti - diritti e proprietà a lei riservati

sabato 10 ottobre 2020

SONIA AL TEMPO DEGLI ARRESTI DOMICILIARI

 

SONIA AL TEMPO DEGLI ARRESTI DOMICILIARI




 

Era davvero strana quella primavera così limpida. Sonia era chiusa in casa, nessuno poteva uscire. Le strade erano presidiate e solo con il lascia passare si poteva andare a comprare il cibo.

Le scuole erano chiuse, i capelli venivano tinti in casa, e chi era malato non si poteva curare, per fortuna le medicine non mancavano.

Sonia aveva compiuto sedici anni proprio due settimane prima, senza festeggiamenti e con tanta tristezza. Con gli amici si era scambiata gli auguri, per fortuna esistevano tanti modi per parlarsi, ma che tristezza non potersi incontrare.

Stare alla finestra ad osservare il cielo era diventata ormai un’abitudine. Da tempo non si vedeva una trasparenza così nel cielo. E le nuvole! Chi le aveva mai viste così? Lei aveva sempre pensato che quelle strisce che poi si allargavano fossero le vere nuvole, e il sole non era mai apparso così limpido. Guardava incuriosita quelle nuvole a sbuffi, bianche che sembravano macchie dipinte da un famoso pittore del quale gli sfuggiva il nome. Come sarebbe stato bello passeggiare con Ronny, il suo piccolo cane meticcio bianco e nero, ma non si poteva e, il suo piccolo amico passava le giornate triste e abbacchiato sul tappeto dell’ingresso.

Mamma e papà passavano le giornate senza fare gran ché, si parlavano poco e l’aria era quasi irrespirabile in casa, mentre fuori era un tripudio di uccelli e piante che rimettevano le foglie, e i fiori del rinsecchito giardino spuntavano anche senza aver ricevuto le dovute cure, la natura sembrava l’unica che non risentiva di quel periodo, anzi sembrava averne tratto giovamento.

La televisione sempre accesa, le notizie catastrofiche di quello strano virus che nessuno conosceva martellavano per ventiquattro ore al giorno nel silenzio rabbioso di casa.

Le sirene delle ambulanze erano diventate come torcibudella che stringevano stomaco e gola, facevano mancare il respiro mentre la mamma si faceva il segno della croce.

Quanto durerà? Si chiedeva spesso Sonia. Un sacco di esperti diceva la sua, ma lei cominciava ad avere dei dubbi.

Passarono anche quelle settimane e, finalmente poté uscire di casa. Prese la bicicletta con Ronny nel cestino e si avviò per i sentieri di campagna rigogliosi di fiori e di verde. Come’era bello respirare a quel modo!   

Cercava di rimanere all’aperto il più possibile, aveva davvero sofferto a rimanere reclusa. Avrebbe voluto incontrare le sue amiche ma tanti genitori erano stati categorici: mantenere le distanze, il pericolo era ancora incombente. Così, Sonia si era rassegnata. La mascherina sempre sul viso le aveva irritato la pelle, e aveva cominciato ad avere una tosse fastidiosa.

Finalmente le regole imposte dal governo cominciarono ad allentarsi e, con alcune amiche ricominciò a frequentare qualche locale. L’argomento era sempre quello, soprattutto chi aveva perso amici o parenti aveva la tristezza impressa negli occhi, tristezza e dolore che la mascherina non poteva nascondere.

Le vacanze non erano nemmeno state prese in considerazione, i suoi genitori avevano il terrore disegnato sul viso, i loro risparmi si erano quasi esauriti e di tornare al lavoro nemmeno parlarne. Suo padre era un idraulico che quasi nessuno più chiamava per la paura che portasse il virus nelle case, sua madre faceva lavori domestici per alcune famiglie ma, ormai nessuno la chiamava. Non era semplice vivere in quel modo.

Era piena estate e il caldo era soffocante. In casa non si accendeva il condizionatore per risparmiare sulla bolletta. Da alcuni giorni la ragazzina si era accorta che qualcosa era peggiorato. Aprì il frigorifero e ci trovò solo uova, una pagnotta vecchia di qualche giorno, un vaso di sottaceti e tre mele. Richiuse lo sportello e bevve un bicchiere d’acqua.

Sua madre era tristemente seduta sul divano, con le braccia abbandonate sulle gambe e lo sguardo fisso in un punto lontano. “Che succede, mamma?” Le chiese un po’ spaventata. Dopo un lungo minuto lo sguardo spento della donna si posò sul volto della figlia e un debole sorriso le rischiarò il viso. La televisione era come al solito accesa e un vivace dibattito fra politici e personaggi famosi rendeva tutto assurdo. Sonia si sedette accanto alla madre e le prese la mano, rimanendo con lei ad ascoltare quelle voci insulse che da mesi riempivano la testa di tante persone terrorizzate.

“Ce la faremo, mamma, stai sicura, tutto passerà.” Le disse dolcemente.

La donna sospirò, strinse la mano della figlia e guardò negli occhi la ragione stessa della sua vita, del suo amore incondizionato, quegli occhi che somigliavano tanto ai suoi. “Ho paura, Sonia. Continuano a dire che la situazione peggiorerà. Io non ho più un lavoro e tuo padre cerca di darsi da fare come può, guarda un altro sbarco e altra gente da mantenere, da curare mentre noi …” Non finì la frase. Si portò una mano al petto mentre il respiro si faceva affannoso. Il viso sbiancava. Sonia capì che sua madre aveva un attacco di cuore, già si curava da mesi. Prese il cellulare e chiamò la guardia medica.

Aspettò l’arrivo dei medici, ma nessuno si presentava, eppure aveva già richiamato diverse volte. Asciugava il sudore sulla fronte di sua madre e le teneva stretta la mano. “Stai serena, mamma, stanno arrivando, me lo hanno promesso.”

Passarono diverse ore e Sonia stringeva la mano ormai fredda di sua madre. Il viso inondato di lacrime e la certezza che anche la sua vita era finita.

Si sentì un trambusto sulle scale e alcuni personaggi vestiti con tute spaziali si fecero strada verso il divano allontanando la ragazza. Richiusero il corpo della donna in un sacco ed uscirono senza dire una parola, lasciando solo un foglio di carta.

Era quasi buio quando rientrò suo padre e lei le raccontò quello che era successo.

“Dov’eri, papà? Ti ho cercato per ore.” Le disse sentendo l’odore di alcol nell’alito dell’uomo.

Sonia si allontanò e cadde stremata sul letto. Il dolore che aveva nel cuore sembrava lo stesso che aveva stroncato la madre, poi finalmente si addormentò.

Ci vollero settimane prima che potesse ritirare una scatola con le ceneri di sua madre e si chiese se davvero fossero le sue, ma ormai non aveva più importanza. I suoi sedici anni erano stati segnati da quel virus e dalla mancanza di aiuto. Non ne faceva una colpa ai medici, non era colpa di nessuno se non di quel virus che ancora si spandeva nell’aria.

Da quando sua madre era morta suo padre non aveva passato nemmeno un giorno da sobrio e lei era disperata. Le rimaneva Ronny che sembrava volere asciugare le lacrime sul viso che tanto amava.

Era ancora davanti alla finestra, ad osservare le nuvole, la vita che era ripresa. Aveva spento la tv, doveva prepararsi a tornare a scuole, se solo l’avessero riaperta. Con gli occhi colmi di lacrime, mentre accarezzava il suo cane si accorse di una strana nuvola, sembrava un grande cuore con al centro un sorriso. “Ce la farò, mamma, io non mi arrendo, ma tu stammi vicina.” Pensò mentre quella nuvola cambiava espressione e si trasformava in bacio.

Sonia sta lottando per tornare alla normalità ma suo padre non è più riuscito a tenersi un lavoro e ogni giorno che passa sembra voler raggiungere sua moglie, incurante di avere una figlia coraggiosa e determinata.

Mentre raggiunge il cimitero un gruppo di ragazzi di colore la deridono, la insultano e la provocano vergognosamente. Lei si ferma e li osserva con tanta rabbia, non è una bambina stupida, ha capito molto bene come tira il vento. Non abbassa lo sguardo e si tiene dentro il dolore di una giovane vita che sta sbocciando e che non aspetta altro di potersi dare da fare per aiutare quelli che soffrono come lei.

Te lo prometto, mamma. Le manda il pensiero davanti a quella piccola lapide. Io non mi arrenderò e farò la differenza.

Raddrizza le spalle e sa che dovrà combattere e lottare per realizzare quello che ha in testa, intanto dovrà riuscire a finire la scuola e poi, poi …

lunedì 5 ottobre 2020

TUTTO E' FELICITA'

 

TUTTO E’ FELICITA’



Mike uscì di casa fischiettando. Era felice come non gli era mai capitato.

Raggiunse la fermata della metropolitana sorridendo ai suoi pensieri. Una lunga giornata di lavoro lo aspettava, ma era contento, finalmente, perché quelle ore lontano da casa non facevano altro che rendere meraviglioso il rientro.

I suoi colleghi si erano accorti del suo cambiamento e avevano capito che si era innamorato. Era un tipo timido, piuttosto schivo e si chiedevano chi fosse la donna che aveva reso possibile quel cambio nella luce dei suoi occhi.

Qualcuno aveva tentano di carpirgli qualche informazione ma lui, schivo e timido per natura non aveva confessato a nessuno il suo segreto. Per qualche giorno lo stuzzicarono, poi lasciarono perdere, aveva diritto a mantenere i suoi segreti.

La fine della giornata era arrivata, Mike prese il suo zaino, salutò i colleghi e uscì fischiettando, così come quando era arrivato.

Il rumore della metropolitana non lo infastidiva più, anzi gli sembrava un ritornello che lo teneva sveglio.

Salì di corsa le scale di casa e, infilando velocemente le chiavi nella serratura aprì veloce la porta.

Sono tornato, Guenda. Urlò appendendo nell’atrio la giacca e lo zaino.

Guenda era seduta sul piccolo divano e gli sorrideva. Sul tavolino due bicchieri. Mike prese il vino dal frigo, lo versò nei calici e si sedette di fronte a lei.

Ciao, amore, non vedevo l’ora di tornare. Sei bellissima con quel vestito, direi proprio sexy. Bevve un sorso di vino mentre sentiva montargli dentro la voglia di abbracciarla e baciarla ma il timer del forno a microonde suonò e lui prese il cibo pronto e lo preparò sul tavolino. Mangiava e non smetteva di osservare Guenda che, col suo sorriso languido aveva scoperto i seni meravigliosi. La sua bocca sembrava pronta per i baci che lui, fra poco le avrebbe dato. Non riuscì a finire la cena, il richiamo della sua Guenda lo aveva attratto in modo seducente e non poteva più nascondere la sua erezione, la voglia di prenderla lì, sul divano mentre lei non abbassava mai gli occhi. Occhi verdi, da gatta in calore, come spesso le diceva, ma lei era felice, felice di dargli tutto quello che lui desiderava.

Mike l’abbracciò e le scoprì il seno. Dio quanto era perfetto. I capezzoli scuri e prominenti lo invitavano e lui cominciò proprio da lì. Le prese la mano e la poggiò sul suo membro duro e pronto, ma ancora voleva aspettare e godere di quella pelle morbida e calda che cominciò a baciare, mentre la mano di lei lo eccitava come sempre gli accadeva.

La spogliò completamente e rimase a fissarla con occhi innamorati. Sei splendida, amore mio, perfetta. Vieni, il letto è più comodo.

Guenda aspettava e gli sorrideva, il suo corpo era sempre pronto per lui e questo la rendeva felice.

Completamenti nudi rimasero qualche attimo ad osservarsi. Poi, non resistendo oltre, Mike prese la sua bambola gonfiabile e raggiunse il letto per un’altra splendida e indimenticabile notte di sesso e di amore.

Racconto di Milena Ziletti diritti e proprietà a lei riservati - immagine dal web

APRI SARCOFAGO, CHIUDI SARCOFAGO

 

APRI SARCOFAGO.

CHIUDI SARCOFAGO.



 

 

Nel mondo degli umani la gente crede a ciò che vede. Non sempre ciò corrisponde a verità, esistono ologrammi, robot ben fatti a somiglianza di qualcuno, il potere della stampa che manipola le informazioni, le televisioni che fanno marcire il cervello in modo che venga usato pochissimo, e via di questo passo.

Ma nel mondo degli umani, ci vivono anche altre creature: che siano fatte di magia, o che siano aliene, tengono aperte molte porte della mente anche se di poche persone. Il bello è che queste persone che si stanno liberando da queste catene sono in continuo aumento. Io ne conosco alcune e di una sono particolarmente vicina, e tutti voi la conoscete, è Emetiades l’aliena che vive in me e con me. E’ stata sua l’idea del sarcofago, proprio per stuzzicare le menti, e devo dire che ci è riuscita bene, qualcuno/a si è interessata e questo significa che la curiosità è quello che ci salverà.

Giustamente, ora mi ha concesso di passare alle spiegazioni, quelle che lei intende, ma sono sicura che, se ognuno di voi usasse la propria mente potrebbe trovarne altre, questo era lo scopo, e questo è quello che mi piacerebbe sapere nei commenti. Naturalmente, per non incorrere in blocchi o sanzioni non potrò essere chiarissima.

16.06. APRI SARCOFAGO, DAI OSSIGENO, CHIUDI SARCOFAGO.  Mentre l’ologramma appare in pubblico, il sarcofago deve essere ossigenato.

17.06 APRI SARCOFAGO, METTI FLEBO, FINISCE FLEBO, CHIUDI SARCOFAGO. Questo riguarda sempre l’ologramma del personaggio che attualmente viene visto in pubblico, ma che non è lui.

17.06 APRI SARCOFAGO, SPRUZZA SONNIFERO, CHIUDI SARCOFAGO. Questo ha una doppia valenza, la prima uguale a quella sopra descritta, la seconda riguarda il popolo da addormentare e che pacifico o meno pacifico si addormenta.

18.06 APRI SARCOFAGO, SPRUZZA PROFUMO, CHIUDI SARCOFAGO. Tutti sanno che, anche se addormentato un corpo rinchiuso puzza. Lo stesso profumo riguarda anche il Popolo, che ben felice di avere qualche minuto profumato si adegua a tutto.

18.06 APRI SARCOFAGO, SPRUZZA AZOTO LIQUIDO, CHIUDI SARCOFAGO. Si riferisce sia sempre al personaggio nel sarcofago, che dà segni di risveglio che allo stesso Popolo, per lo stesso motivo.

19.06 APRI SARCOFAGO, CONTROLLA BATTITO, CHIUDI SARCOFAGO. Forse con l’azoto liquido si è esagerato, non si vuole la morte di nessuno, solo un sonno ristoratore.

20.06 APRI SARCOFAGO, ASCOLTA BISBIGLIO, CHIUDI SARCOFAGO. Il personaggio cerca di dire qualcosa da passare al suo ologramma, lo stesso vale per il Popolo, ascoltare il suo bisbiglio e buttarlo nel cesso.

21.06 APRI SARCOFAGO, ASCOLTA IL SILENZIO, CHIUDI SARCOFAGO. Le operazioni fin qui fatte hanno portato il silenzio, e questo è ciò che volevano.

21.06 APRI SARCOFAGO, LANCI UNO SPUTO, CHIUDI SARCOFAGO. Mentre il personaggio dorme immerso nel ghiaccio, lo sputo è per il Popolo, tutto viene provato per capire fin dove possono arrivare, e gli va da dio!

22.06 APRI SARCOFAGO, GROSSA RISATA, CHIUDI SARCOFAGO. Tutto procede come vogliono loro e ridono in faccia al Popolo.

23.06 APRI SARCOFAGO, DAI ZUCCHERINO, CHIUDI SARCOFAGO. Per non tirare troppo la corda, decidono di addolcire un pochino l’aria del sarcofago e il Popolo che comincia a rumoreggiare.

23.06 APRI SARCOFAGO, ESTRAI L’OSPITE, MOSTRALO IN GIRO, RIPORTALO INDIETRO, CHIUDI SARCOFAGO. Loro sanno molto bene che qualcuno sospetta dell’ologramma e non vogliono rischiare, allora, anche se per pochi minuti, mostrano l’ospite intanto che l’ologramma si ricarica.

25.06 APRI SARCOFAGO, TAPPI LE ORECCHIE, CHIUDI SARCOFAGO. Il personaggio un po’ si agita, così anche il popolo è innervosito, allora cosa c’è di meglio che chiudere le orecchie a tutti?

25.06 APRI SARCOFAGO, AZZ NON SI APRE, SARCOFAGO SIGILLATO? Non possono esagerare con quello che stanno facendo,  qualcuno ha sigillato il sarcofago e ha messo il bavaglio al popolo, nessuno deve parlare.

26.06 ODDIO IL SARCOFAGO E’ RADDOPPIATO, UNO SI APRE, L’ALTRO SI CHIUDE. FINE DEI GIOCHI. Ci sono due sarcofaghi uguali, uno è il solito ma l’altro contiene le verità nascoste. Quale è quello che si chiude e quello che si apre?

Questo lo scopriremo solo vivendo, dipende dal Popolo.

impressioni di Milena Ziletti - immagine dal web