BIANCA
prima parte
Mi chiamo Bianca e voglio
raccontarvi la mia storia.
Sono nata appena dopo la
prima guerra mondiale, ai piedi dell’Appennino Toscano. Devo il mio nome al
fatto che quando nacqui tutto era ricoperto da un manto bianco di neve, e la
mamma scelse quel nome, anche se la nonna voleva chiamarmi Candida. Ero la
quarta figlia e, dopo di me, ce ne furono altri quattro. La mia era una
famiglia numerosa: mamma, babbo, nonna, noi otto fratelli e uno zio scapolo
fratello del babbo. Eravamo, come tante altre, una famiglia normale e in casa
non c’era molta allegria. La mamma era sempre indaffarata e stanca. Il babbo si
vedeva solo all’ora dei pasti, anche lo zio, perché lavoravano la terra e
c’erano anche gli animali.
Quando ci mettevamo a tavola
sembravamo una tribù, ma nonna non ammetteva nessun tipo di scompiglio quando
si mangiava e sapeva maneggiare con sapienza una lunga verga sempre a
disposizione.
Io ero l’unica dei fratelli
ad avere i capelli rossi e mamma mi diceva che li avevo ereditati dalla sua
bisnonna. Il viso con tante lentiggini e la pelle chiara: il mio nome, Bianca,
mi si addiceva, ma a volte i miei fratelli mi prendevano in giro e mi
chiamavano “Rossa”. Di tutti e otto eravamo solo due femmine, io e Angela , più
grande di me di due anni. Dormivamo nello stesso lettuccio ed eravamo molto
affiatate e, molte volte, eravamo costrette a coalizzarci contro i maschi.
Se ripenso a quei tempi
ricordo alcune cose che rimarranno indelebili nella mia mente: i minestroni con
quell’odore di cavolo che inondava la casa, oppure quelle forme gigantesche di
pane che la nonna sfornava, oppure il rito del bagno da farsi ogni sabato, su
questo la mamma non ammetteva trasgressioni. Le prime a lavarsi eravamo Angela
ed io in quanto poi dovevamo asciugare i lunghi capelli davanti al fuoco in
inverno, o sotto il portico in estate; poi toccava a tutti gli altri. Quanti
secchi di acqua calda e fredda portavano avanti e indietro i miei fratelli e la
mamma: il sabato lo avevamo soprannominato “la processione dell’acqua”.
E la domenica,
immancabilmente, tutti a messa.
Io adoravo gli animali.
Avevamo gatti, due cani, ma mi piaceva anche andare a vedere i coniglietti, i
pulcini e mi spaventavano molto topi e bisce.
Avevo sette anni. Ero davanti
alla gabbia dei conigli e ammiravo i piccoli nati da alcuni giorni. Erano così
carini ed io parlavo con loro. Vidi entrare lo zio che noi tutti avevamo
soprannominato “zio Orso”, perché era grande, aveva una folta barba, due occhi
piccoli e scuri a parlava pochissimo. La nonna diceva che era il suo figlio
sfortunato, perché aveva perso la fidanzata e non ne aveva più voluto un’altra.
Non ho mai saputo se fosse vero o una storia inventata per giustificare un
figlio scapolo. Mi rivolsi a lui “guarda zio come sono carini i coniglietti!”
Lui mi venne vicino e li guardò. Poi guardò me. Mi guardava in un modo strano,
i suoi occhi sembravano più grandi e mi accarezzò i capelli rossi.
Mentre mi accarezzava
cominciò a slacciarmi i bottoni del grambiulino, me lo tolse e mi tolse tutto
il resto. Io ero pietrificata! Cosa stava facendo? Non riuscivo a muovermi e
non riuscivo quasi a respirare. Avevo la bocca spalancata dallo stupore e lo
sentii dire:” Lo sanno tutti che le rosse sono delle puttane, e tu, non fai
differenza.” Io non capivo cosa voleva dire ma avevo paura ed ero terrorizzata.
Continuava ad accarezzarmi ed io piangevo lacrime silenziose. Dopo un po’ mi
disse “Se lo dici a qualcuno ti ammazzo.” Mi rivestì, e uscì come se non fosse
successo nulla. Rimasi ferma ed impietrita davanti alla gabbia dei conigli e
non capivo ancora cosa mi era successo. Le lacrime si erano asciugate e corsi
in casa. La mamma stava pulendo la verdura per il minestrone e non badò a me
che corsi in camera e mi rifugiai nel mio letto.
Era quasi ora di cena e venne
a vedere perché fossi ancora a letto. Non era da me, che ero una bambina
vivace, e le dissi che non mi sentivo bene e che non volevo mangiare. Mi sentì
la fronte e disse che non avevo niente, perciò dovevo andare a tavola con gli
altri.
Mi sembrava che tutti mi guardassero
in modo strano ed io non alzai gli occhi dal piatto. Non volli mangiare niente.
E quello fu l’inizio del mio
cambiamento.
Nei giorni successivi cercai
di comportarmi come al solito, ma ero molto più silenziosa, più tranquilla.
Stavo molto con i miei gatti e parlavo con loro, non giocavo più nemmeno con
Angela. Passarono alcune settimane ed io cercavo di dimenticare quello che mi
era successo, per la verità non l’avevo nemmeno capito. Mi sembrava quasi di
averlo sognato e, un po’ alla volta tornai ad essere come prima, anche se non
completamente, perché c’era, comunque dentro di me, una certa inquietudine.
Dovevano essere passati
almeno tre mesi quando tornai a vedere i coniglietti, ma non resistetti e
scappai via subito.
Era domenica mattina ed ero in
casa di sola, perché tutti gli altri erano alla funzione. Io non c’ero voluta
andare perché non me la sentivo. Ero davanti al fuoco con in braccio un gattino
e gli parlavo quando entrò zio Orso. Il sangue mi si gelò ed il gattino scappò
via.
Mi sembrava di essere un
pezzo di ghiaccio e cominciai ad avere paura. Zio Orso non si avvicinò questa
volta, si sedette sulla sedia e si calò i calzoni: Io non avevo mai visto
niente di simile e cominciò a toccarsi. “Guarda rossa puttana, è quello che
farai nella tua vita, così puoi imparare prima!” Mi spaventai talmente tanto
che caddi svenuta.
Mi risvegliai sentendo un
panno fresco ed umido sulla fronte. Vicino a me c’era la nonna. “Come stai
Bianca?” ma io non rispondevo. Guardavo fisso davanti a me e non parlavo. “Io
so cosa ti è successo, ma tu, non lo devi dire a nessuno, hai capito Bianca? Se
lo dici a qualcuno scaccerò te e tua madre da questa casa e non rivedrete più
nessuno di noi e sarete costrette a chiedere l’elemosina per vivere. Hai capito
bene Bianca? Se hai capito fammi un cenno.” Feci segno di sì con la testa e le
dissi “vai via, voglio la mia mamma.” “Ricorda quello che ti ho detto” e se ne
andò.
Avevo la febbre alta,
deliravo e piangevo, era così che la nonna lo aveva saputo, anche se, secondo
me, lo sospettava.
Angela vicina a me mi teneva
stretta, mi cambiava il panno umido e mi diceva che mi voleva bene. Lei non
sapeva quello che mi era successo, ma vedeva la mia sofferenza e cercava di
confortarmi in tutti i modi. Rimasi a letto per una settimana, poi la mamma mi
fece alzare. Ero molto pallida ed i capelli rossi spiccavano più del solito.
“Come stai piccina?” mi chiese la mamma. Io l’abbracciai e le risposi “sto un
po’ meglio mammina” e mi accorsi che non riuscivo più a parlare sciolta come
prima: ero balbuziente. Mi misi a piangere e la mamma mi strinse a sé
consolandomi come solo una madre sa fare. Credo avesse capito o sapesse cosa mi
era successo perché mi disse “mai più nessuno ti farà del male, adesso ci sono
io con te e non ti lascerò più”.
Da quel giorno non parlai più
come prima, ero diventata balbuziente, così cercavo di parlare il meno
possibile.
In casa si respirava un’aria
diversa dal solito. I miei fratelli, pur non sapendo niente, si erano accorti
che qualcosa non andava. La mamma non rivolgeva più la parola alla nonna e allo
zio e, a stento, diceva poche frasi al babbo. Quando serviva la cena saltava
sempre il piatto di nonna e zio oppure gli rovesciava addosso il cibo. Aveva la
bocca serrata, come se avesse voluto dire o fare qualcosa ma non poteva e,
molto importante, non mi perdeva mai di vista. Angela si guardava intorno senza
darsi una spiegazione del cambiamento che era avvenuto.
La mamma e la nonna avevano
litigato furiosamente ed io non avevo sentito quello che si erano dette, ma il
risultato fu che la nonna fu relegata a sguattera di casa, le fu tolta la verga
ed ogni voce in capitolo in famiglia, e zio Orso fu mandato a dormire fuori
dalle mura della nostra casa. In tutto questo cambiamento, mio padre cercò dei
chiarimenti e la sfuriata che gli fece la mamma lo ammutolì ancora più di
prima. Ora la mamma li teneva tutti a bacchetta e nessuno dei grandi cercò di
rivoltarsi: sembrava diventata una leonessa.
racconto di Milena Ziletti - diritti e proprietà a lei riservati
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