IL SEGRETO DELLA LUNA
parte nove
Non era
ancora ora di cena, si era già lavato e si sdraiò sul letto col registro in
mano. Come spesso gli accadeva si soffermò sui visi di quelle ragazze,
diciassette ragazze giovani che erano state uccise per qualche motivo, come la
sua Lisa. Al pensiero di sua figlia e di sua moglie strinse le palpebre per
trattenere le lacrime e continuò a sfogliare il quaderno. Lo aveva osservato già per ore, lo conosceva
praticamente a memoria ma, ogni momento libero lo dedicava a decifrare quelle
figure.
Maggio
arrivò col suo profumo di rose e di fiori. La signora Mariella tolse da una
teca la statua della Madonna e la pose in centro al tavolo della cucina e non
la toglieva nemmeno quando mangiavano. Gastone non smetteva di stupirsi di
quella coppia, aveva capito che mostravano una faccia che non era la loro ma non
erano affari suoi.
Andava in
paese a consegnare il liquore alla casa di tolleranza ma non si fermava mai più
del necessario, quello non era posto per lui.
Era domenica
mattina e si stavano preparando per andare a messa. Gastone avrebbe preferito
farne a meno ma doveva guidare il carretto perché Ermete si era ferito ad un
braccio.
A malavoglia
entrò in chiesa e, come al solito si mise in fondo, non voleva mescolarsi con
gli altri, e quello era un ottimo punto di osservazione.
Non seguiva
nemmeno una parola o un gesto di quello che diceva e faceva il prete, il suo
sguardo osservava ogni persona, ogni gesto cercando qualcosa che lo aiutasse
nella sua ricerca.
Nel
pomeriggio andò a trovare Giacinta che lo aspettava seduta sulla sua sedia a
dondolo e Lina sulle ginocchia.
“Sei venuto,
finalmente!”
“Buongiorno,
Cincia. Già, ora sono qui.” Prese un sacchetto con del cibo e lo mise sul
tavolo in cucina.
La gatta
aprì un occhio, lo guardò e si rimise a dormire.
“Hai avuto
l’approvazione di Lina, adesso posso darti anche la mia.”
“Ha dei
lavori da fare? Posso dare una mano?”
“E che
vorresti fare? Solo un miracolo può tenere in piedi ancora questa vecchia
baracca, lascia che crolli quando vuole, tanto non ha più nessun valore, né per
me né per nessuno. Piuttosto, dimmi, cos’è che ti tormenta? Si vede lontano un
chilometro che hai lo sguardo triste, e dammi del tu, potrei essere tua nonna.”
“Va bene,
Cincia. Vorrei solo conoscere di più di questo posto, delle persone che ci
abitano, delle storie che si raccontano, delle usanze … delle disgrazie.”
“Mi chiedi
questo perché sono vecchia, ed hai ragione. Cosa ti interessa?”
Gastone non
sapeva come introdurre il discorso, ancora non si fidava, nessuno doveva
conoscere la sua storia e quello che voleva fare, era indispensabile il massimo
riserbo, parlarne col priore era un conto, un vecchio frate chiuso in un
convento ma, parlarne a persone sbagliate poteva significare mandare tutto
all’aria.
“Vedo che
non vuoi parlare, comincerò io, sono una vecchia sola da troppo tempo, anch’io
avevo una famiglia, una bella famiglia!” I suoi occhi si accesero al solo
pensiero dei suoi cari.
“Che fine
hanno fatto?”
“Mio marito
e morto mentre lavorava nei campi. Avevo due figli maschi, il più giovane se ne
andò e non ne ho più saputo niente, credo che si sia arruolato e morto su
qualche campo di battaglia. Il più grande si sposò ed ebbe una figlia, Lina.
Sua moglie morì di parto e lui poco dopo dal dispiacere. Mia nipote visse con
me, poi sparì e nessuno la rivide più. L’ho cercata finché ho avuto la forza, e
ancora l’aspetto, ma so, so per certo che non tornerà più!”
“Doveva
essere molto bella tua nipote, parlami di lei.”
La vecchia
continuava ad accarezzare la gatta ed era persa in ricordi e pensieri lontani.
“Era molto
dolce, timida, un carattere schivo e non amava la compagnia. Andava spesso al
fiume, era una sognatrice, cantava strofe che lei stessa componeva. La sua voce
era dolcissima e perfino gli uccelli si incantavano ad ascoltarla. Questo le
dicevo spesso sei talmente brava che
incanti anche gli uccelli. Ricordo come fosse oggi la sua risata, il suo
abbraccio, era lei che consolava me e non il contrario. Aveva capelli lunghi e
armoniosi, bruni come le foglie in autunno e un viso dall’ovale perfetto, tale
e quale a quello della sua povera mamma. Le dicevo spesso che era il suo
ritratto e che non poteva essere più bella. Se entri in casa c’è piccolo
ritratto della mia povera nuora, puoi vedere da te quanto fosse bella.”
Gastone andò
a vedere il ritratto nella cornice e se lo stampò bene nella mente, lo avrebbe
confrontato con i diciassette volti del suo registro.
“E’ davvero
bella con un bel porta ritratto, hai ragione era davvero una ragazza stupenda.”
“E’ il
ricordo di mio figlio, il porta ritratto fu un regalo per il loro matrimonio.”
“Quanti anni
aveva tua nipote?”
“Aveva
sedici anni, ed era bellissima.” Giacinta si asciugò gli occhi. Il ricordo
della sua dolcissima nipote non l’abbandonava mai, viveva la sua scomparsa come
una colpa, toccava a lei sorvegliarla e, invece le aveva lasciato troppa
libertà e lei non era più tornata.
Gastone
vedeva la sofferenza su quel viso rugoso e capiva il dolore di quella vecchia
donna.
“Davvero non
vuoi che faccia qualche lavoretto per te? Non sono abituato a starmene con le
mani in mano!”
Giacinta si
alzò e gli fece cenno di seguirla.
La casupola
era in penombra e il freddo del nudo pavimento si irradiava in ogni stanza. Era
una casa fredda, una casa con tanti fantasmi e tanto dolore e nemmeno il camino
più grande del mondo avrebbe potuto riscaldare quell’ambiente.
Gastone ebbe
un brivido e si chiese come potesse ancora stare in piedi quell’ammasso di
travi ed assi corrose dai tarli e dal tempo.
La vecchia
condusse il suo ospite al piano superiore, lei non ci saliva da tempo. Viveva
nelle due stanze al piano terra e le bastavano.
Il piano
superiore aveva tre piccole stanze ricoperte di polvere e ragnatele. Giacinta
aprì una porta e si fermò sulla soglia. Il suo sguardo si perdeva in qualcosa
che solo lei poteva conoscere. Gastone la raggiunse e vide una piccola camera,
impossibile non capire che doveva essere di Lina. C’erano un paio di
orsacchiotti consumati dal tempo, un piccolo letto ricoperto da un lenzuolo
colorato, un quadro della Madonna alla parete, un comò e poche altre
suppellettili.
“Quando se
n’è andata ha lasciato tutto così, come vedi ora. Ti sembra la stanza di una
ragazza che voleva andarsene per non tornare più?”
“Cosa pensi
che le sia successo?” Gastone drizzò le orecchie in attesa della risposta.
“Qualcuno me
l’ha portata via, sì qualcuno l’ha rapita e poi …” Non finì la frase, non ci
riuscì.
“Per quale
motivo l’hanno rapita?”
La donna si
voltò verso di lui e gli lanciò uno sguardo da incenerirlo. “Devi essere
proprio ottuso se mi fai questa domanda, per quale motivo rapiscono una bella
ragazza, giovane, vergine? Per approfittarsene, cosa credi! La usano come un
giocattolo e poi la buttano via! Almeno potessi riavere il suo corpo e darle degna sepoltura accanto ai
suoi genitori!”
“Non ti sei
rivolta a nessuno per denunciarne la scomparsa?”
“Pensi che
mi avrebbero creduta? Che qualcuno avrebbe mosso un dito per aiutare una
vecchia mezza pazza? Che a qualcuno interessasse della nostra vita? No, ci ho
pensato da sola. L’ho cercata per mesi ma non l’ho più trovata, e mai più la
ritroverò!”
“Anch’io ho
perso mia figlia … e mia moglie!” Si lasciò sfuggire l’uomo.
Giacinta si
sedette sul piccolo letto e fece segno a Gastone di sedersi vicino a lei.
“E’ questo
dolore che ti tormenta, un dolore simile al mio, per questo l’ho riconosciuto
subito quando ti ho visto la prima volta! Dio quanto è ingiusta la vita, perché
non si è preso la mia vita invece di quella della mia giovane nipote? Non potrò
mai perdonarlo, mai e poi mai, per avermi dato un dolore così grande!”
Rimasero
entrambi seduti in silenzio, avvolti dal loro dolore e dalle lacrime silenziose
che bagnavano il viso rugoso di Giacinta e quello scurito dal sole di Gastone.
Gastone
prese la mano di Cincia e ridiscesero. Il suo sguardo si posò sul ritratto della
nuora, poi capì. C’era qualcosa che lo aveva attratto, non era il ritratto
della bella donna ma la cornice. Si avvicinò e la prese in mano, sfiorandola.
Aveva dei disegni, dei simboli in risalto e fu attratto da uno speciale nodo
che aveva più volte notato nei disegni del registro che gli aveva dato il
priore.
Pose il
ritratto sul tavolo, davanti alla vecchia. “Dimmi, Cincia ha qualche
significato questo simbolo? E questo? E questo?” Non voleva sbilanciarsi, non
avrebbe abbandonato la sua cautela, non ancora.
Gli occhi
ancora umidi si alzarono per osservare quello che il suo ospite le mostrava.
Passò con le dita sui rilievi di quei simboli e scosse la testa in segno di
diniego.
“Non so cosa
intendi, ma per me non hanno nessun significato.”
romanzo di Milena Ziletti - diritti e proprietà a lei riservati
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