domenica 3 febbraio 2019

VITTORIO


VITTORIO



Era l’11 maggio 2004. Una splendida giornata sotto ogni punto di vista: il sole era caldo, e per noi, giorno di inattesa vacanza. Mia moglie Rita e la nostra bambina Francesca di cinque anni stavano uscendo dalla porta di casa. Io le aspettavo in macchina. Le guardavo mentre scendevano i gradini e, quello che mi rimase impresso come una fotografia, fu la loro felicità, la spensieratezza, i sorrisi ed i baci che mi mandavano.  In quel momento pensai che ero l’uomo più felice del mondo. Io, cresciuto in un orfanatrofio adesso avevo una splendida famiglia che speravo di allargare con altri figli; un lavoro che mi piaceva e, finalmente, uno scopo nella mia vita, fatta fino ad alcuni anni prima, di solitudine, studio e lavoro. Anche mia moglie non aveva più nessuno, da quando la sua vecchia nonna che l’aveva allevata era morta.

C’eravamo solo noi: mia moglie, mia figlia ed io. Ma il mondo ci aspettava, e con quella “istantanea” negli occhi e nel cuore, le feci salire in macchina. Sembravano due bambine birichine ed elettrizzate.

Quel giorno saremmo andati al centro commerciale a far compere e mangiare pizza e patatine, era un giorno di festa. Presto saremmo andati al mare e servivano costumi, abiti e tutto quello che occorre per una vacanza, ma già quella giornata era un anticipo di allegria e buonumore. Ci volle tutta la mia pazienza per seguirle nei vari negozi, ma vedere come loro si divertivano mi ripagava di quel piccolo sacrificio.
Come promesso mangiammo pizza e patatine e dopo un altro girovagare per i negozi tornammo alla macchina, pronti per rientrare. Mentre la musica riempiva l’auto, Francesca si addormentò. Mia moglie mi passò una mano fra i capelli e mi baciò. Non c’era bisogno di parlare, fra di noi bastava uno sguardo per esprimere tutto il nostro amore. Presto saremmo andati al mare e speravamo di poter tornare con un fratellino o una sorellina per Francesca.

Guidavo tranquillo, non avevamo fretta, non ero stanco e mi stavo godendo quei piacevoli momenti con le mie adorate donne. Il semaforo era verde e passai senza pensare e, in un attimo, quel camion, spense la mia luce.
Finii in un buco nero e ci rimasi per tredici mesi. Non ho ricordo di niente, tranne il colore nero. Per me potevano essere trascorsi tredici giorni, invece era passato più di un anno dall’incidente.

Mi risvegliai piano piano e mi resi conto di essere in ospedale. Ci volle un po’ di tempo perché la mia mente si riprendesse, ma, purtroppo, lo fece.

Venne una signora, forse una dottoressa, non so, e mi disse che mia moglie e mia figlia erano morte sul colpo; l’autista del camion si era distratto ed era piombato sulla nostra auto; lui non aveva subito gravi danni.

Le mie adorate donne erano state sepolte a spese della collettività e mi diedero indicazioni su dove erano le loro tombe. La nostra casa era stata svuotata dalle nostre cose personali e ridata in affitto, tutto quello che mi era rimasto erano le nostre fedi nuziali, la catenina di Francesca e una fotografia di loro due così simili, sorridenti e felici. Nessuno si aspettava che mi sarei potuto risvegliare, e dovevo essere contento di essere ancora vivo.

Il mio cervello non era più agile e sveglio come prima, avevo problemi a parlare correttamente per il trauma che avevo subito, la mia faccia aveva cicatrici che non avevo ancora visto, ma la cicatrice più grande l’avevo nel cuore, quella non avevo bisogno di vederla: la sentivo come un pugnale piantato.

Chiesi uno specchio e mi guardai: non riconoscevo quel viso, quegli occhi, e la barba che copriva un po’ di tagli. Cercai di dire quanto fossi irriconoscibile ma mi uscirono parole storpiate e suoni indecifrabili. Chi era quell’uomo? Non certo il Vittorio che conoscevo che era un ingegnere, un marito, un padre un UOMO, no, quello era solo un relitto umano e mi chiesi perché non ero morto anch’io. Le emozioni, quelle erano bloccate, non erano ancora tornate. Vivevo ancora frastornato, incredulo e incapace di fare progetti.

A metà giugno venni dimesso, fisicamente stavo bene e non potevo più restare lì. Mi diedero un po’ di denaro, dei vestiti, alcuni indirizzi che mi sarebbero serviti per mangiare e dormire e, con ancora tanto buio nell’anima, me ne andai.

Era metà mattina. La prima sensazione che riconobbi fu il calore del sole sulla pelle, i rumori del traffico, le persone indaffarate un po’ alla volta mi rimisero in contatto con la realtà. Avevo capito che il mio cervello ci metteva un po’ a rispondere e mi chiesi cosa dovevo fare adesso: andare a trovare le mie donne.

La città la conoscevo bene, avevo tempo in abbondanza e mi incamminai verso il cimitero. Avevo indicazioni precise di dove erano sepolte, e, quando ci arrivai… una mano strappò dal mio cuore e dalla mia anima quel velo nero che li ricopriva. Un’unica tomba le conteneva entrambe, la mia foto preferita e neanche un fiore!
Un’esplosione di dolore mi dilaniò il petto e il cuore. Cominciai a piangere e diedi libero sfogo a tutta la mia rabbia, al mio dolore, e tutte quelle emozioni rimaste imprigionate in quei lunghi mesi mi ridestarono alla consapevolezza di aver perso tutto quello che avevo: l’amore di mia moglie, la tenerezza di mia figlia, il desiderio di altri figli, la nostra famiglia così forte e felice, tutto quello che era importante per me non esisteva più e non l’avrei mai più avuto. Io stesso non ero più quello di prima e più niente sarebbe tornato come prima.
Questa consapevolezza mi dilaniava la mente e il corpo. Singhiozzavo e piangevo senza alcun ritegno e alcune persone mi guardavano strano.
Una signora anziana si avvicinò e guardò prima loro e poi me, mi regalò tre rami di fiori finti e, borbottando, mi lasciò al mio dolore. “Come si può resistere con questo male dentro?” pensai. “Cosa posso fare per riuscire a sopportarlo?”

Baciai quella foto, mi asciugai gli occhi e mi feci una promessa: mai più lacrime, avrei imparato a piangere dentro.

Mi incamminai come uno zombi e non riuscivo a resistere al dolore. Mi allontanai sperando di allontanare anche la sofferenza, ma non c’era distanza che serviva. In quel momento presi la decisione che avrebbe segnato per sempre la mia ben misera vita: entrai in un negozio e comprai una bottiglia di liquore.

Andai in un parco e, seduto su una panchina, cominciai a bere. Un po’ alla volta il mio cervello si annebbiò, mi addormentai e, senza sogni, mi svegliai la mattina dopo, avevo trovato la soluzione: l’alcol mi avrebbe aiutato.

Cominciai a bere ma i soldi erano finiti e cominciai a chiedere l’elemosina. Ero sporco, sfregiato e triste e trovavo sempre qualche anima gentile. Ogni giorno avevo soldi a sufficienza per bere, Ogni tanto andavo alla mensa dei poveri, mangiavo, mi lavavo e poi tornavo a quella panchina. Finchè il tempo era caldo io rimanevo lì. Non parlavo con nessuno, e aspettavo la fine sperando che venisse presto. Avevo imparato a rendermi invisibile, così anche gli altri mi avrebbero lasciato in pace.

Quel giorno mi svegliai un po’ più sobrio del solito. Era l’undici di settembre e decisi di ricordare la morte delle mie donne. Entrai in una chiesa e accesi due candele, cercai di recitare una preghiera per loro ma non ci riuscii. Stavo seduto nell’angolo più nascosto pensando a loro e rividi il loro sorriso e, come avevo imparato a fare, cominciai a piangere dentro.

Nessuna emozione era visibile sulla mia faccia, solo l’espressione ebete di un vecchio alcolizzato. Quando uscii avevo un unico desiderio: bere per far sparire quel ricordo.
Quel parco era diventato la mia casa. Ormai riconoscevo chi lo frequentava: le mamme coi loro bambini, alcune coppiette di giovani ragazzi, anziani che venivano a leggere il giornale e altre persone di passaggio.
Non parlai mai con nessuno, non instaurai nessun tipo di rapporto nemmeno con i cani: desideravo essere lasciato solo, ma solo non lo ero mai, Rita e Francesca erano sempre nella mia mente e volevo scacciare anche loro cercando di scacciare i ricordi di una vita che non esisteva più. Meno ricordavo e meno soffrivo, e, per farlo, bevevo.

L’estate stava passando. Cosa avrei fatto col sopraggiungere del freddo? Chissà, forse sarei morto su quella panchina ed il cerchio si sarebbe chiuso.

Le giornate si accorciavano ed il freddo si faceva sentire. Andai alla mensa e mi feci dare un giaccone pesante, dei guanti, una cuffia di lana e tornai alla mia panchina. Adesso dovevo ammetterlo: l’ingegnere era diventato un barbone.
Era dura la vita da barbone, soprattutto per chi, come me, non voleva contatti con nessuno.

Ogni mattina una signora portava a spasso il suo cane e quando mi passava vicino mi guardava, sospirava e borbottava “non si può vivere così” oppure “cosa gli sarà successo per ridursi così, si vede che è ancora giovane” o “non si può fare finta di niente”, ma io non rispondevo mai, la guardavo e allungavo la mano sperando in qualche spicciolo.
 Cominciò a portarmi un sacchetto ogni mattina, una volta un panino, un’altra volta focaccia fresca, oppure frutta ma non mi lasciava mai denaro, sapeva che l’avrei speso in liquori. Adesso non borbottava più, mi guardava, scuoteva la testa e continuava per la sua strada.

Avevo freddo, dentro e fuori e l’alcol mi serviva anche per scaldarmi, ma quel giorno non ne avevo. Ero sobrio e la mia mente andò alle mie donne: quanto mi mancavano! Cominciai a piangere dentro e tolsi la fotografia dalla tasca e le guardai. Da quanto tempo non lo facevo! Non avrei voluto farlo nemmeno ora ma erano la mia unica compagnia, cercai di parlare loro ma le parole erano storpiate, il mio linguaggio spaventava le persone, per questo non parlavo con nessuno, ma con loro, in solitudine, lo potevo fare.

Il tempo continuava a peggiorare e sarei dovuto andare a dormire al ricovero, ma non ci andai, speravo che ogni notte fosse l’ultima della mia vita.

Quel mattino, la “buona samaritana” così l’avevo soprannominata arrivò con il suo cane e una borsa voluminosa. Si fermò e borbottò “non si può vivere così” e mi lasciò un grande cappotto pesante. Non riuscii nemmeno a ringraziarla.
Non so come superai quell’inverno.
 Le giornate cominciavano ad essere più tiepide ed ad allungarsi. Era stato un inverno sopportabile ma, meno sopportabile, stava diventando la mia solitudine.

 Avevo voglia di rivedere gente: bambini, anziani, giovani che rianimavano il parco e cominciai a tenere pulito dalle cartacce, bottiglie e rifiuti vari un pezzo di parco vicino alla mia panchina. Chissà, le persone si sarebbero fermate più volentieri in un posto pulito ed io le avrei potute guardare. E fu così.
Mano a mano che il tempo migliorava il parco si rianimava. Una coppia di ragazzi si fermò sulla panchina gialla e si scambiavano carezze, baci e tante parole sussurrate. Io li guardavo e speravo per loro un futuro diverso dal mio.

Avrei voluto abbracciarli, la loro presenza era il primo raggio di sole che penetrava nella mia mente, speravo che sarebbero tornati ancora, perché la loro risata mi ricordava la mia Rita. Li avevo soprannominati “Giulietta e Romeo” e facevano parte della mia vita come la “buona samaritana”. Poi arrivò “Benito”, così lo soprannominai perché camminava tutto impettito e si fermava a leggere il giornale sulla panchina verde.

Poi passò una giovane mamma che accompagnava all’asilo il suo bimbo: erano bellissimi. Un ricordo doloroso fiondò nel mio cuore come un missile, cercai di scacciarlo e guardai quel bambino.
La donna lo teneva per mano, lui mi guardò e mi sorrise, lasciò la mano della madre e corse verso di me: “lo sai che somigli al mio nonno? Lo sai che il mio nonno è andato in cielo? Mamma guarda questo signore come somiglia al nonno! Ti piacciono i biscotti? Al mio nonno piacevano molto.”
 Una madre molto imbarazzata venne per riprenderlo, ma lui non desisteva. “Mamma, al signore piacciono i biscotti, possiamo dargliene un pacchetto?” La donna mi guardava senza sapere cosa dire; feci un cenno con la testa e tolse un pacchetto di biscotti dalla borsa. Lo diede al bambino che, tutto sorridente, me li portò. “Sono buoni, hanno la cioccolata.” Nel porgermi il pacchetto mi sfiorò la mano: era il primo vero contatto umano che avevo da molto tempo. Era come una carezza, sentire la mano di quel bambino che, senza repulsione, mi aveva toccato, aveva fatto riemergere in me un mondo di emozioni che avevo cercato di dimenticare. Lui mi fece ciao con la mano ed io ricambiai e mi toccai dove la sua leggera carezza si era posata. In quel momento non riuscii a piangere dentro, l’emozione mi portò lacrime vere.

Quel giorno era cominciato così bene, ma non sapevo ancora cosa mi aspettava.
Con la bella stagione gruppi di ragazzi, tornando a casa da scuola, passavano per il parco. Era un piacere per me starli a guardare, ma ce n’era un gruppo che non mi piaceva. Erano in cinque, tutti maschi e passandomi vicino cominciarono a prendermi in giro. Io, come al solito, non risposi alle provocazioni sperando che se ne andassero in fretta, Ma la mia passività sembrava renderli sempre più audaci. Cominciarono a spintonarmi, a guardare nelle mie borse, a togliermi la cuffia e usarla come una palla.
Cominciavo ad essere stanco di essere maltrattato da quei cinque ragazzini e cercavo di difendermi.  Uno solo di quei ragazzi non partecipava al gioco, anzi diceva agli altri di smetterla. Io lo guardavo e vedevo nel suo sguardo un segno di bontà che gli altri non possedevano.  “Cosa ci fai con questi teppisti?” pensai. “Vai via, non farti infangare l’anima da tipi come questi.” Con una alzata di spalle se ne andò. Gli altri continuavano a maltrattarmi e mi chiamavano “Bavoso”. Cominciai a urlare che la smettessero, ma il mio linguaggio era quel che era e si misero a ridere e a prendermi in giro ancora di più. Dopo aver sparpagliato i miei averi per terra li calpestarono, mi insultarono e poi, per fortuna, se ne andarono.

Nella tristezza più profonda, cominciai a raccogliere le mie misere cose. Come era possibile che giovani ragazzi potessero comportarsi in quel modo? Perché lo facevano? Che gusto ci trovavano ad infierire in quattro contro un uomo solo e indifeso? Speravo che non sarebbero più tornati, ma non mi facevo troppe illusioni.
Quello che mi sorprese fu rivedere quel ragazzo che se ne era andato tornare da solo. Si sedette sulla mia panchina e senza guardarmi in faccia mi chiese scusa. Lui li conosceva, sapeva quanto potevano essere cattivi e mi pregava di cambiare posto perché potevano essere pericolosi. Per un attimo restai sorpreso, quel ragazzo si preoccupava per me: per un barbone sporco, ubriacone, bavoso. Allora c’era ancora un po’ di bene nel mondo, c’era ancora qualcuno che viveva con saldi ideali e progetti per un buon futuro. Mi si allargò il cuore. Posai timidamente la mia mano sporca sulla sua e, con molta fatica gli dissi “grazie”.

Lui non sapeva che quel “grazie” conteneva molti significati: grazie per la tua bontà, grazie perché dimostri che i giovani non sono tutti uguali, grazie perché dai al mondo la speranza di un futuro migliore, grazie perché un giorno lontano ero anch’io come te e grazie per la tua vicinanza. Si alzò, mi strinse la mano lasciandoci del denaro, se ne andò dicendo “stai attento!” Anche a lui diedi un soprannome “Vittorio” sperando che per lui la vita fosse una vittoria e perché mi somigliava.

Quella sera mi sdraiai sulla mia panchina pensando alla mia vita, a quella passata e bellissima che avevo avuto, a quella attuale così difficile e dolorosa, a quella che potevo avere in futuro, ma senza immaginare come potesse essere.
Mi addormentai, dando un ultimo sguardo alle stelle, mandando un bacio alle mie adorate donne.

Un rumore mi svegliò. Non c’era mai stato in passato. Rimasi fermo cercando di capire di cosa si trattava. Riconobbi il rumore di passi, di risate sciocche e in un baleno fui circondato da quei quattro teppistelli. Avevano il volto coperto da un fazzoletto, ma li riconobbi.

“Come stai, bavoso?” mi chiese quello che sembrava il capo. “Siamo tornati per prenderci la tua roba, vogliamo bruciarla, fare un bel falò e cantarci intorno”.

Capii che ero in pericolo, ma non sapevo cosa fare, e rimasi fermo ed immobile sulla panchina. Il mio cuore batteva all’impazzata ed il respiro si era fatto veloce e rauco. I ragazzi, vedendo la mia paura risero sguaiatamente. “Resta fermo dove sei, ti vogliamo battezzare”.
Mi versarono del liquido e dissero parole blasfeme, ridevano come se fossero ubriachi. Dopo poco riconobbi l’odore dell’alcol che mi avevano versato addosso e uno di loro che diceva “Se vuoi diventare uno di noi, tocca a te dargli fuoco”. In quel momento capii quello che volevano farmi, avrei voluto alzarmi e correre lontano ma ero bloccato dal terrore. Volevo urlare, ma mi avevano messo qualcosa in bocca. Un ragazzo si avvicinò con l’accendino e con gli occhi spiritati. Gli altri continuavano a ripetere “brucialo, brucialo, brucialo” e quello, senza esitazione, accese l’accendino e mi diede fuoco.

 Le fiamme partirono immediatamente, avevo il terrore negli occhi e cominciai ad urlare. Sentivo i vestiti bruciare, le gambe non rispondevano e loro quattro continuavano a ripetere “brucia, brucia, brucia”

Capii che quella era la mia fine. Misi la mano in tasca e presi la fotografia delle mie donne, volevo morire guardando i miei amori, ma la foto bruciò quasi subito.
Il dolore era immenso, urlavo e non sapevo se ero io ad urlare. Cominciai ad agitare le braccia, e il dolore aumentava. Percepii la corsa di un ragazzo e vidi “Vittorio” che urlava e piangeva, vidi la disperazione sul suo viso, e fu quella l’ultima immagine che vidi prima di morire fra atroci sofferenze e sentii in lontananza la sirena dei pompieri. E, per fortuna, ritornai nel mio limbo nero.
Alla fine, quel buco nero che mi aveva tenuto per tredici mesi mi riprese con sé, ma questa volta per sempre, ed era particolarmente caldo.

Quei ragazzi! Quanta pena provo per loro. Non c’è punizione che possa servire a farli cambiare o pentire. Che colpa hanno se la loro anima è dannata? Che colpa hanno se non riescono a capire il bene ed il male? Per loro non c’è speranza, non hanno un cuore, non hanno sentimenti, non hanno pentimenti. Fate in modo che non lo facciano più, ma non sono certo io a dire come va fatto.

A loro non penso, ma rivedo l’innocenza di quel bambino che mi ha regalato biscotti, la generosità di tutti i “buoni samaritani” che ho incontrato, della bontà e della disperazione di “Vittorio” ed ho capito che c’è sì tanto male e cattiveria ma che saranno i sentimenti buoni a trionfare, perché adesso, da qui, solo quelli mi sono rimasti dentro e solo quelli ricordo: anche se da lì non sembra, vi posso assicurare che il futuro è solo per le persone buone, oneste, altruiste, amorevoli, generose. Tutti gli altri finiranno in un grande buco nero che li inghiottirà senza speranza.
 Io lo so, sperate e credeteci anche voi, solo la bontà e l’amore è il fine della vostra esistenza.
Adesso sono felice con le mie adorate donne.

                                                                             Vittorio


immagine dal web - diritti e proprietà di Milena Ziletti

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