VITTORIO
Era
l’11 maggio 2004. Una splendida giornata sotto ogni punto di vista: il sole era
caldo, e per noi, giorno di inattesa vacanza. Mia moglie Rita e la nostra
bambina Francesca di cinque anni stavano uscendo dalla porta di casa. Io le
aspettavo in macchina. Le guardavo mentre scendevano i gradini e, quello che mi
rimase impresso come una fotografia, fu la loro felicità, la spensieratezza, i
sorrisi ed i baci che mi mandavano. In
quel momento pensai che ero l’uomo più felice del mondo. Io, cresciuto in un
orfanatrofio adesso avevo una splendida famiglia che speravo di allargare con
altri figli; un lavoro che mi piaceva e, finalmente, uno scopo nella mia vita,
fatta fino ad alcuni anni prima, di solitudine, studio e lavoro. Anche mia
moglie non aveva più nessuno, da quando la sua vecchia nonna che l’aveva
allevata era morta.
C’eravamo
solo noi: mia moglie, mia figlia ed io. Ma il mondo ci aspettava, e con quella
“istantanea” negli occhi e nel cuore, le feci salire in macchina. Sembravano
due bambine birichine ed elettrizzate.
Quel
giorno saremmo andati al centro commerciale a far compere e mangiare pizza e
patatine, era un giorno di festa. Presto saremmo andati al mare e servivano
costumi, abiti e tutto quello che occorre per una vacanza, ma già quella
giornata era un anticipo di allegria e buonumore. Ci volle tutta la mia
pazienza per seguirle nei vari negozi, ma vedere come loro si divertivano mi
ripagava di quel piccolo sacrificio.
Come
promesso mangiammo pizza e patatine e dopo un altro girovagare per i negozi
tornammo alla macchina, pronti per rientrare. Mentre la musica riempiva l’auto,
Francesca si addormentò. Mia moglie mi passò una mano fra i capelli e mi baciò.
Non c’era bisogno di parlare, fra di noi bastava uno sguardo per esprimere
tutto il nostro amore. Presto saremmo andati al mare e speravamo di poter
tornare con un fratellino o una sorellina per Francesca.
Guidavo
tranquillo, non avevamo fretta, non ero stanco e mi stavo godendo quei
piacevoli momenti con le mie adorate donne. Il semaforo era verde e passai
senza pensare e, in un attimo, quel camion, spense la mia luce.
Finii
in un buco nero e ci rimasi per tredici mesi. Non ho ricordo di niente, tranne
il colore nero. Per me potevano essere trascorsi tredici giorni, invece era
passato più di un anno dall’incidente.
Mi
risvegliai piano piano e mi resi conto di essere in ospedale. Ci volle un po’
di tempo perché la mia mente si riprendesse, ma, purtroppo, lo fece.
Venne
una signora, forse una dottoressa, non so, e mi disse che mia moglie e mia
figlia erano morte sul colpo; l’autista del camion si era distratto ed era
piombato sulla nostra auto; lui non aveva subito gravi danni.
Le
mie adorate donne erano state sepolte a spese della collettività e mi diedero
indicazioni su dove erano le loro tombe. La nostra casa era stata svuotata
dalle nostre cose personali e ridata in affitto, tutto quello che mi era
rimasto erano le nostre fedi nuziali, la catenina di Francesca e una fotografia
di loro due così simili, sorridenti e felici. Nessuno si aspettava che mi sarei
potuto risvegliare, e dovevo essere contento di essere ancora vivo.
Il
mio cervello non era più agile e sveglio come prima, avevo problemi a parlare
correttamente per il trauma che avevo subito, la mia faccia aveva cicatrici che
non avevo ancora visto, ma la cicatrice più grande l’avevo nel cuore, quella
non avevo bisogno di vederla: la sentivo come un pugnale piantato.
Chiesi
uno specchio e mi guardai: non riconoscevo quel viso, quegli occhi, e la barba
che copriva un po’ di tagli. Cercai di dire quanto fossi irriconoscibile ma mi
uscirono parole storpiate e suoni indecifrabili. Chi era quell’uomo? Non certo
il Vittorio che conoscevo che era un ingegnere, un marito, un padre un UOMO,
no, quello era solo un relitto umano e mi chiesi perché non ero morto anch’io.
Le emozioni, quelle erano bloccate, non erano ancora tornate. Vivevo ancora
frastornato, incredulo e incapace di fare progetti.
A
metà giugno venni dimesso, fisicamente stavo bene e non potevo più restare lì.
Mi diedero un po’ di denaro, dei vestiti, alcuni indirizzi che mi sarebbero
serviti per mangiare e dormire e, con ancora tanto buio nell’anima, me ne
andai.
Era
metà mattina. La prima sensazione che riconobbi fu il calore del sole sulla
pelle, i rumori del traffico, le persone indaffarate un po’ alla volta mi
rimisero in contatto con la realtà. Avevo capito che il mio cervello ci metteva
un po’ a rispondere e mi chiesi cosa dovevo fare adesso: andare a trovare le
mie donne.
La
città la conoscevo bene, avevo tempo in abbondanza e mi incamminai verso il
cimitero. Avevo indicazioni precise di dove erano sepolte, e, quando ci
arrivai… una mano strappò dal mio cuore e dalla mia anima quel velo nero che li
ricopriva. Un’unica tomba le conteneva entrambe, la mia foto preferita e
neanche un fiore!
Un’esplosione
di dolore mi dilaniò il petto e il cuore. Cominciai a piangere e diedi libero
sfogo a tutta la mia rabbia, al mio dolore, e tutte quelle emozioni rimaste
imprigionate in quei lunghi mesi mi ridestarono alla consapevolezza di aver
perso tutto quello che avevo: l’amore di mia moglie, la tenerezza di mia
figlia, il desiderio di altri figli, la nostra famiglia così forte e felice,
tutto quello che era importante per me non esisteva più e non l’avrei mai più avuto. Io stesso non ero più
quello di prima e più niente sarebbe tornato come prima.
Questa
consapevolezza mi dilaniava la mente e il corpo. Singhiozzavo e piangevo senza
alcun ritegno e alcune persone mi guardavano strano.
Una
signora anziana si avvicinò e guardò prima loro e poi me, mi regalò tre rami di
fiori finti e, borbottando, mi lasciò al mio dolore. “Come si può resistere con
questo male dentro?” pensai. “Cosa posso fare per riuscire a sopportarlo?”
Baciai
quella foto, mi asciugai gli occhi e mi feci una promessa: mai più lacrime,
avrei imparato a piangere dentro.
Mi
incamminai come uno zombi e non riuscivo a resistere al dolore. Mi allontanai
sperando di allontanare anche la sofferenza, ma non c’era distanza che serviva.
In quel momento presi la decisione che avrebbe segnato per sempre la mia ben
misera vita: entrai in un negozio e comprai una bottiglia di liquore.
Andai
in un parco e, seduto su una panchina, cominciai a bere. Un po’ alla volta il
mio cervello si annebbiò, mi addormentai e, senza sogni, mi svegliai la mattina
dopo, avevo trovato la soluzione: l’alcol mi avrebbe aiutato.
Cominciai
a bere ma i soldi erano finiti e cominciai a chiedere l’elemosina. Ero sporco,
sfregiato e triste e trovavo sempre qualche anima gentile. Ogni giorno avevo
soldi a sufficienza per bere, Ogni tanto andavo alla mensa dei poveri,
mangiavo, mi lavavo e poi tornavo a quella panchina. Finchè il tempo era caldo
io rimanevo lì. Non parlavo con nessuno, e aspettavo la fine sperando che
venisse presto. Avevo imparato a rendermi invisibile, così anche gli altri mi
avrebbero lasciato in pace.
Quel
giorno mi svegliai un po’ più sobrio del solito. Era l’undici di settembre e
decisi di ricordare la morte delle mie donne. Entrai in una chiesa e accesi due
candele, cercai di recitare una preghiera per loro ma non ci riuscii. Stavo
seduto nell’angolo più nascosto pensando a loro e rividi il loro sorriso e,
come avevo imparato a fare, cominciai a piangere dentro.
Nessuna
emozione era visibile sulla mia faccia, solo l’espressione ebete di un vecchio
alcolizzato. Quando uscii avevo un unico desiderio: bere per far sparire quel
ricordo.
Quel
parco era diventato la mia casa. Ormai riconoscevo chi lo frequentava: le mamme
coi loro bambini, alcune coppiette di giovani ragazzi, anziani che venivano a
leggere il giornale e altre persone di passaggio.
Non
parlai mai con nessuno, non instaurai nessun tipo di rapporto nemmeno con i
cani: desideravo essere lasciato solo, ma solo non lo ero mai, Rita e Francesca
erano sempre nella mia mente e volevo scacciare anche loro cercando di
scacciare i ricordi di una vita che non esisteva più. Meno ricordavo e meno
soffrivo, e, per farlo, bevevo.
L’estate
stava passando. Cosa avrei fatto col sopraggiungere del freddo? Chissà, forse
sarei morto su quella panchina ed il cerchio si sarebbe chiuso.
Le
giornate si accorciavano ed il freddo si faceva sentire. Andai alla mensa e mi
feci dare un giaccone pesante, dei guanti, una cuffia di lana e tornai alla mia
panchina. Adesso dovevo ammetterlo: l’ingegnere era diventato un barbone.
Era
dura la vita da barbone, soprattutto per chi, come me, non voleva contatti con
nessuno.
Ogni
mattina una signora portava a spasso il suo cane e quando mi passava vicino mi
guardava, sospirava e borbottava “non si può vivere così” oppure “cosa gli sarà
successo per ridursi così, si vede che è ancora giovane” o “non si può fare
finta di niente”, ma io non rispondevo mai, la guardavo e allungavo la mano
sperando in qualche spicciolo.
Cominciò a portarmi un sacchetto ogni mattina,
una volta un panino, un’altra volta focaccia fresca, oppure frutta ma non mi
lasciava mai denaro, sapeva che l’avrei speso in liquori. Adesso non borbottava
più, mi guardava, scuoteva la testa e continuava per la sua strada.
Avevo
freddo, dentro e fuori e l’alcol mi serviva anche per scaldarmi, ma quel giorno
non ne avevo. Ero sobrio e la mia mente andò alle mie donne: quanto mi
mancavano! Cominciai a piangere dentro e tolsi la fotografia dalla tasca e le
guardai. Da quanto tempo non lo facevo! Non avrei voluto farlo nemmeno ora ma
erano la mia unica compagnia, cercai di parlare loro ma le parole erano
storpiate, il mio linguaggio spaventava le persone, per questo non parlavo con
nessuno, ma con loro, in solitudine, lo potevo fare.
Il
tempo continuava a peggiorare e sarei dovuto andare a dormire al ricovero, ma
non ci andai, speravo che ogni notte fosse l’ultima della mia vita.
Quel
mattino, la “buona samaritana” così l’avevo soprannominata arrivò con il suo
cane e una borsa voluminosa. Si fermò e borbottò “non si può vivere così” e mi
lasciò un grande cappotto pesante. Non riuscii nemmeno a ringraziarla.
Non
so come superai quell’inverno.
Le giornate cominciavano ad essere più tiepide
ed ad allungarsi. Era stato un inverno sopportabile ma, meno sopportabile,
stava diventando la mia solitudine.
Avevo voglia di rivedere gente: bambini,
anziani, giovani che rianimavano il parco e cominciai a tenere pulito dalle
cartacce, bottiglie e rifiuti vari un pezzo di parco vicino alla mia panchina.
Chissà, le persone si sarebbero fermate più volentieri in un posto pulito ed io
le avrei potute guardare. E fu così.
Mano
a mano che il tempo migliorava il parco si rianimava. Una coppia di ragazzi si
fermò sulla panchina gialla e si scambiavano carezze, baci e tante parole
sussurrate. Io li guardavo e speravo per loro un futuro diverso dal mio.
Avrei
voluto abbracciarli, la loro presenza era il primo raggio di sole che penetrava
nella mia mente, speravo che sarebbero tornati ancora, perché la loro risata mi
ricordava la mia Rita. Li avevo soprannominati “Giulietta e Romeo” e facevano
parte della mia vita come la “buona samaritana”. Poi arrivò “Benito”, così lo
soprannominai perché camminava tutto impettito e si fermava a leggere il
giornale sulla panchina verde.
Poi
passò una giovane mamma che accompagnava all’asilo il suo bimbo: erano
bellissimi. Un ricordo doloroso fiondò nel mio cuore come un missile, cercai di
scacciarlo e guardai quel bambino.
La
donna lo teneva per mano, lui mi guardò e mi sorrise, lasciò la mano della
madre e corse verso di me: “lo sai che somigli al mio nonno? Lo sai che il mio
nonno è andato in cielo? Mamma guarda questo signore come somiglia al nonno! Ti
piacciono i biscotti? Al mio nonno piacevano molto.”
Una madre molto imbarazzata venne per
riprenderlo, ma lui non desisteva. “Mamma, al signore piacciono i biscotti,
possiamo dargliene un pacchetto?” La donna mi guardava senza sapere cosa dire;
feci un cenno con la testa e tolse un pacchetto di biscotti dalla borsa. Lo
diede al bambino che, tutto sorridente, me li portò. “Sono buoni, hanno la
cioccolata.” Nel porgermi il pacchetto mi sfiorò la mano: era il primo vero
contatto umano che avevo da molto tempo. Era come una carezza, sentire la mano
di quel bambino che, senza repulsione, mi aveva toccato, aveva fatto riemergere
in me un mondo di emozioni che avevo cercato di dimenticare. Lui mi fece ciao
con la mano ed io ricambiai e mi toccai dove la sua leggera carezza si era
posata. In quel momento non riuscii a piangere dentro, l’emozione mi portò
lacrime vere.
Quel
giorno era cominciato così bene, ma non sapevo ancora cosa mi aspettava.
Con
la bella stagione gruppi di ragazzi, tornando a casa da scuola, passavano per
il parco. Era un piacere per me starli a guardare, ma ce n’era un gruppo che
non mi piaceva. Erano in cinque, tutti maschi e passandomi vicino cominciarono
a prendermi in giro. Io, come al solito, non risposi alle provocazioni sperando
che se ne andassero in fretta, Ma la mia passività sembrava renderli sempre più
audaci. Cominciarono a spintonarmi, a guardare nelle mie borse, a togliermi la
cuffia e usarla come una palla.
Cominciavo
ad essere stanco di essere maltrattato da quei cinque ragazzini e cercavo di
difendermi. Uno solo di quei ragazzi non
partecipava al gioco, anzi diceva agli altri di smetterla. Io lo guardavo e
vedevo nel suo sguardo un segno di bontà che gli altri non possedevano. “Cosa ci fai con questi teppisti?” pensai.
“Vai via, non farti infangare l’anima da tipi come questi.” Con una alzata di
spalle se ne andò. Gli altri continuavano a maltrattarmi e mi chiamavano
“Bavoso”. Cominciai a urlare che la smettessero, ma il mio linguaggio era quel
che era e si misero a ridere e a prendermi in giro ancora di più. Dopo aver
sparpagliato i miei averi per terra li calpestarono, mi insultarono e poi, per
fortuna, se ne andarono.
Nella
tristezza più profonda, cominciai a raccogliere le mie misere cose. Come era
possibile che giovani ragazzi potessero comportarsi in quel modo? Perché lo
facevano? Che gusto ci trovavano ad infierire in quattro contro un uomo solo e
indifeso? Speravo che non sarebbero più tornati, ma non mi facevo troppe
illusioni.
Quello
che mi sorprese fu rivedere quel ragazzo che se ne era andato tornare da solo.
Si sedette sulla mia panchina e senza guardarmi in faccia mi chiese scusa. Lui
li conosceva, sapeva quanto potevano essere cattivi e mi pregava di cambiare
posto perché potevano essere pericolosi. Per un attimo restai sorpreso, quel
ragazzo si preoccupava per me: per un barbone sporco, ubriacone, bavoso. Allora
c’era ancora un po’ di bene nel mondo, c’era ancora qualcuno che viveva con
saldi ideali e progetti per un buon futuro. Mi si allargò il cuore. Posai
timidamente la mia mano sporca sulla sua e, con molta fatica gli dissi
“grazie”.
Lui
non sapeva che quel “grazie” conteneva molti significati: grazie per la tua
bontà, grazie perché dimostri che i giovani non sono tutti uguali, grazie
perché dai al mondo la speranza di un futuro migliore, grazie perché un giorno
lontano ero anch’io come te e grazie per la tua vicinanza. Si alzò, mi strinse
la mano lasciandoci del denaro, se ne andò dicendo “stai attento!” Anche a lui
diedi un soprannome “Vittorio” sperando che per lui la vita fosse una vittoria
e perché mi somigliava.
Quella
sera mi sdraiai sulla mia panchina pensando alla mia vita, a quella passata e
bellissima che avevo avuto, a quella attuale così difficile e dolorosa, a quella
che potevo avere in futuro, ma senza immaginare come potesse essere.
Mi
addormentai, dando un ultimo sguardo alle stelle, mandando un bacio alle mie
adorate donne.
Un
rumore mi svegliò. Non c’era mai stato in passato. Rimasi fermo cercando di
capire di cosa si trattava. Riconobbi il rumore di passi, di risate sciocche e
in un baleno fui circondato da quei quattro teppistelli. Avevano il volto
coperto da un fazzoletto, ma li riconobbi.
“Come
stai, bavoso?” mi chiese quello che sembrava il capo. “Siamo tornati per
prenderci la tua roba, vogliamo bruciarla, fare un bel falò e cantarci
intorno”.
Capii
che ero in pericolo, ma non sapevo cosa fare, e rimasi fermo ed immobile sulla
panchina. Il mio cuore batteva all’impazzata ed il respiro si era fatto veloce
e rauco. I ragazzi, vedendo la mia paura risero sguaiatamente. “Resta fermo
dove sei, ti vogliamo battezzare”.
Mi
versarono del liquido e dissero parole blasfeme, ridevano come se fossero
ubriachi. Dopo poco riconobbi l’odore dell’alcol che mi avevano versato addosso
e uno di loro che diceva “Se vuoi diventare uno di noi, tocca a te dargli
fuoco”. In quel momento capii quello che volevano farmi, avrei voluto alzarmi e
correre lontano ma ero bloccato dal terrore. Volevo urlare, ma mi avevano messo
qualcosa in bocca. Un ragazzo si avvicinò con l’accendino e con gli occhi
spiritati. Gli altri continuavano a ripetere “brucialo, brucialo, brucialo” e
quello, senza esitazione, accese l’accendino e mi diede fuoco.
Le fiamme partirono immediatamente, avevo il
terrore negli occhi e cominciai ad urlare. Sentivo i vestiti bruciare, le gambe
non rispondevano e loro quattro continuavano a ripetere “brucia, brucia, brucia”
Capii
che quella era la mia fine. Misi la mano in tasca e presi la fotografia delle
mie donne, volevo morire guardando i miei amori, ma la foto bruciò quasi
subito.
Il
dolore era immenso, urlavo e non sapevo se ero io ad urlare. Cominciai ad
agitare le braccia, e il dolore aumentava. Percepii la corsa di un ragazzo e
vidi “Vittorio” che urlava e piangeva, vidi la disperazione sul suo viso, e fu
quella l’ultima immagine che vidi prima di morire fra atroci sofferenze e
sentii in lontananza la sirena dei pompieri. E, per fortuna, ritornai nel mio
limbo nero.
Alla
fine, quel buco nero che mi aveva tenuto per tredici mesi mi riprese con sé, ma
questa volta per sempre, ed era particolarmente caldo.
Quei
ragazzi! Quanta pena provo per loro. Non c’è punizione che possa servire a
farli cambiare o pentire. Che colpa hanno se la loro anima è dannata? Che colpa
hanno se non riescono a capire il bene ed il male? Per loro non c’è speranza,
non hanno un cuore, non hanno sentimenti, non hanno pentimenti. Fate in modo che
non lo facciano più, ma non sono certo io a dire come va fatto.
A loro
non penso, ma rivedo l’innocenza di quel bambino che mi ha regalato biscotti,
la generosità di tutti i “buoni samaritani” che ho incontrato, della bontà e
della disperazione di “Vittorio” ed ho capito che c’è sì tanto male e
cattiveria ma che saranno i sentimenti buoni a trionfare, perché adesso, da
qui, solo quelli mi sono rimasti dentro e solo quelli ricordo: anche se da lì
non sembra, vi posso assicurare che il futuro è solo per le persone buone,
oneste, altruiste, amorevoli, generose. Tutti gli altri finiranno in un grande
buco nero che li inghiottirà senza speranza.
Io lo so, sperate e credeteci anche voi, solo
la bontà e l’amore è il fine della vostra esistenza.
Adesso
sono felice con le mie adorate donne.
Vittorio
immagine dal web - diritti e proprietà di Milena Ziletti
Nessun commento:
Posta un commento