CAMILLA
P. DUE
Fu la sua una carezza
inattesa, e forse nemmeno voluta, ma il suo gesto imprevedibile mi costrinse ad
alzare gli occhi e a guardarlo.
Il suo sguardo si era come
trasformato, i suoi occhi avevano assunto una tenerezza e una dolcezza che non
avevo mai visto in un estraneo come era lui per me. Strinse il pugno e le
lacrime che conteneva vennero imprigionate fra le sue mani.
“Come ti chiami?” Anche la sua voce aveva cambiato tono.
“Camilla”
riuscii solo a rispondergli.
“Io mi chiamo Rocco, e sono uno stupido.”
“Perché?”
“Perché ti ho fatto piangere senza motivo. Perché
tutti mi dicono che sono un bambino cattivo, perché non riesco a trattenermi e
sono spesso violento e irascibile, ma tutto questo non c’entra niente con te.”
“Non esistono i bambini cattivi, io non ne conosco.
Vuoi che ti racconti una storia? Sono molto brava ad inventare favole e
racconti, ma non ho nessuno che li sta ad ascoltare. Vuoi essere mio amico? Mi
piacerebbe tanto.” Non avevo mai
fatto un discorso così lungo.
Ci sedemmo separati dalla
ringhiera e cominciai a raccontargli di fate, angeli ed elfi. Di uccelli magici
e farfalle parlanti. Lui non mi interruppe mai. Io non capivo se mi ascoltava
oppure stava semplicemente passando il tempo, ma mi piaceva, per la prima
volta, essere capace di esprimermi con qualcuno senza sentire la mia timidezza.
Avevo sei anni, Rocco ne
aveva sette, e se è possibile per due bambini così piccoli ci “innamorammo”
della nostra semplicità.
Avevo trovato un amico, il
mio primo amico e lui non ho capito cosa ci trovasse in me.
“Camilla, le tue storie sono molto belle e mi piace
stare ad ascoltarle. Adesso devo andare a fare i compiti altrimenti mia mamma
ricomincerà a sgridarmi, spero di rivederti presto, magari vieni a giocare con
me nel mio giardino. Ciao.”
Con la mia bambola stretta al
petto ed un sentimento sconosciuto che mi nasceva dentro tornai a casa mia.
“Ciao Camilla, vuoi fare merenda?” La mamma aveva già preparato il pane con la
marmellata. “Cos’è quel bel sorriso che
vedo? Che c’è di nuovo?”
“Ho un amico, mamma ho un amico e sono contenta. Si chiama
Rocco e gli ho raccontato le mie storie, andrò a giocare nel suo giardino se mi
dai il permesso. Ci pensi mamma? Ho un amico.”
Quel giorno, lo ricordo bene,
era il 20 maggio 1946, una data che non dimenticherò mai, perché quell’incontro
ha segnato molti episodi della mia vita, quel bambino e quella bambina ebbero
molte occasioni di camminare insieme per la lunga strada della vita.
Riapro gli occhi e cerco
l’album delle fotografie della mia famiglia. Ci sono io da bambina con i miei
genitori, e quella del mio primo giorno di scuola. Ce n’è una anche di Rocco
insieme a me. Mi ricordo bene quando è stata scattata.
Sento la voce della signora
Matilde, la sua mamma che mi chiama: “Camilla,
vieni che voglio farti una fotografia con Rocco, la voglio proprio
incorniciare, voglio avere un ricordo dell’unica persona che riesce a farlo
stare calmo. Quando è in tua compagnia è come se si trasformasse e diventasse
un bambino normale, spero che tu possa stargli vicino per tutta la vita, con il
carattere che si ritrova avrà molto bisogno di una persona come te che gli da’
buoni consigli.”
Io non sapevo cosa volesse
dire. A me piaceva stare con Rocco e in quella fotografia ci teniamo per mano,
come due buoni amici.
Il primo anno di scuola fu
per me una tragedia. La mia timidezza mi ha condizionata per tutta la vita, ma
quel primo anno fu disastroso.
La maestra non riusciva a
trovare il modo per rompere quel guscio che mi imprigionava. Quando mi faceva
una domanda, anche se sapevo rispondere non ci riuscivo. Se alzavo gli occhi e
vedevo tutte le mie compagne che mi guardavano non riuscivo a dire una parola.
Non c’era niente da fare, era
più forte di me. Per non parlare della ricreazione: era il momento peggiore
della mattinata.
Mi ritiravo in un angolo con
la mia merenda e guardavo gli altri bambini giocare. Rocco amava giocare a
calcio e non si perdeva nemmeno un minuto della pausa. Le mie compagne, invece,
si raggruppavano a parlare fra di loro e non ho mai capito quante cose avessero
da raccontarsi. Solo io rimanevo da sola, ma tanto ci ero abituata.
La palla arriva ai miei piedi
e Rocco corre a recuperarla. Si sofferma solo un attimo per guardarmi e per
farmi un veloce sorriso. Angelo lo raggiunge impaziente “Forza Rocco, non perdere tempo con questa mezza scema, vieni a
giocare”.
E’ stato un attimo: i suoi
occhi da sorridenti si sono trasformati in qualcosa che non avevo mai visto. Si
gira di scatto e, con tutta la forza di quelle sue piccole mani gli sferra un
pungo in faccia con tanta violenza che due denti gli si staccano dalla bocca.
Un urlo tremendo e un fiotto
di sangue che sembra sia stato scannato.
Corrono le maestre, perfino
il direttore e Rocco viene spedito a casa con una sospensione.
foto dal web - diritti e proprietà riservati di Milena Ziletti
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