domenica 9 febbraio 2020

FRANCESCO MATTEO


FRANCESCO MATTEO





Sto  fumando una sigaretta sdraiato sulla mia branda. Seguo le volute di fumo e guardo le pareti della mia cella. Sono tappezzate di fotografie a colori di vari paesaggi in ogni stagione. Mi servono per ricordare anche come è il mondo fuori dalle mura del carcere. Sto qui dentro già da alcuni anni e ne ho parecchi altri da trascorrere. Questa è una non vita, ma è quello che mi spetta per i prossimi dieci dodici anni.
Non vi racconto che sono innocente e che sono capitato qui per sbaglio. No, io per la società sono colpevole, ma per la mia coscienza sono innocente, quello che ho fatto lo rifarei anche subito, non ne sono assolutamente pentito.
Oggi è un giorno qualunque, non c’è niente di particolare che mi invoglia a parlare della mia vita, ma se ne avete voglia ve la racconto, tanto non ho altro da fare.

Mi chiamo Francesco Matteo, nome altisonante che odio e non mi piace, per questo, per tutti, sono Teo, solo Teo. Non so dove è andata mia madre a prendere questi nomi. Mia madre, unica, l’ho tanto amata da…

Ho 21 anni e sono in carcere da quando ne avevo 16. Uscirò nel 1992, salvo sorprese, ed avrò allora 33 anni. Ancora una vita da vivere, ma, al momento, la mia vita è fra queste mura.

Il fumo della sigaretta mi irrita gli occhi e la mia piccola “reggia” ne è satura. I paesaggi incollati al muro sembrano avvolti dalla nebbia e mi rimandano un’emozione lontana, alla vera nebbia, che ho visto quando ero bambino.

Sono figlio di una ragazza madre, la mia infanzia e adolescenza l’ho condivisa solo con lei e la signora Lucia. Gentile e generosa vicina di casa che si prendeva cura di me mentre mia madre era al lavoro.

Se non avete fatto i conti, ve lo dico io: sono nato nel 1959 e mia madre aveva appena 20 anni.  Lasciò la casa dei suoi genitori e si trasferì in quel minilocale che ci ha ospitato per tutta la nostra vita. Non ho mai avuto un padre e la nostra vita era fatta di molte ristrettezze. 
Siamo sempre stati da soli, a parte Lucia. I miei nonni li ho visti poche volte, e, ogni volta non c’era una bella atmosfera.

Due donne meravigliose si sono sempre prese cura di me: mia madre che mi ha amato di un amore vero e incondizionato che sono riuscito a capire appieno quando ho conosciuto la verità, e Lucia che mi ha fatto da nonna, viziandomi e vezzeggiandomi e amando e aiutando in modo disinteressato anche mia madre. E’ stato merito di Lucia se la nostra vita è stata vivibile, perché mia madre, da sola, avrebbe avuto molti problemi con un bambino piccolo da mantenere ed accudire e un lavoro da svolgere.

Sono stato un bambino felice. Mia madre era meravigliosa, sempre allegra e sorridente, e Lucia che ci invitava ai pranzi della domenica, come fanno le famiglie vere. Non mi sono mai accorto dell’assenza di un padre, ero bambino, sano, bello, allegro e avevo due donne a disposizione che mi adoravano.

La sigaretta si consuma piano piano quasi come i miei pensieri.
Il mio sguardo si sofferma su una immagine sacra che ho da poco appeso alla parete: una Madonna con il suo bambino in braccio che si guardano con sguardo amorevole. E’ l’unica immagine sacra che ho tenuto. 
Ogni settimana Frate Guido mi viene a trovare. Io non gli parlo nemmeno, non potrebbe fregarmene di meno, ma lui insiste e ogni giovedì si presenta puntuale. Mi parla, recita preghiere, ma io non gli rispondo mai, faccio scena muta. Lo saluto soltanto e gli dico di non ritornare. Lui mi fa un sorriso, mi lascia un’immaginetta, e se ne va.
Ogni volta l’immagine finisce direttamente nel cesso, ma non l’ultima, quella della Madonna, e l’ho appesa alla parete.

Mi ricorda tanto mia madre. Quello sguardo è lo sguardo di ogni madre che ama il proprio figlio e mi riporta alla mente la mia infanzia e quell’amore materno che non mi è mai mancato.
Se di una cosa sono sempre stato sicuro era il suo immenso amore. Era così giovane quando sono nato e non ha mai cercato altro nella vita se non di rendermi felice. Sono stato il solo, l’unico, grande amore della sua vita, ed io contraccambiavo con tutto il cuore.
Mentre crescevo e facevo nuove amicizie, lei continuava la sua vita di duro lavoro. Mi aiutava con i compiti, giocavamo a carte con Lucia mangiando schifezze. Mi ha insegnato il valore vero dei sentimenti, il rispetto verso ogni forma di vita, e soprattutto ho imparato presto a rispettare le donne. Con il suo esempio e quello di Lucia non poteva essere diverso, in ogni donna, ragazza o bambina, io vedevo solo il lato positivo che aveva sia mia madre che Lucia.

Solo una volta, a dieci anni, gli chiesi notizie di mio padre.
Fu il momento peggiore per lei. La vidi cambiare espressione e irrigidirsi e non sapeva decidersi a rispondere.
“Mamma, non importa, non è così importante. Non mi serve un padre finchè ci sei tu.”
Allora l’ho vista rilassarsi. Mi ha preso fra le braccia “non sono ancora pronta Francesco Matteo, perdonami.”
Solo a lei permettevo di chiamarmi così. E non tornai più sull’argomento: se questo la faceva soffrire l’avrei evitato.

La scuola, i giochi, gli amici, tutto procedeva nella normalità. Avevo terminato la scuola dell’obbligo e mi ero iscritto a ragioneria, volevo diventare bancario e guadagnare tanti soldi anche per mia madre. I sogni dei ragazzi sono tanti, ma il mio era questo.
Avevo anche delle ragazzine che mi facevano il filo ed io ci stavo, facevamo amicizia ma mai sono stato fuori dalle righe. Avevo un mio codice di comportamento, per questo alcuni miei amici mi prendevano in giro. Non capivano perché non approfittassi della situazione con le ragazze che mi corteggiavano, ma io ero fatto così: solo cose serie. E poi, mi piaceva troppo divertirmi, giocavo a basket, andavo a pesca sul fiume e, anche se allora non l’ho mai detto ai miei amici, mi piaceva anche studiare. Non volevo fare la figura del secchione, ma desideravo tanto poter portare mia madre fuori dal quel monolocale e mi impegnavo molto per questo.
Tutto procedeva bene. Anche se Lucia era diventata un po’ troppo vecchia, sapeva ancora sfornare torte meravigliose e il loro profumo già si sentiva dalle scale, sapevo che, entrando in casa, avrei trovato il dolce sulla tavola.

Quel fatidico giorno di marzo, avevo 16 anni.

Ho una fitta al cuore ogni volta che lo ricordo, e vorrei poterlo dimenticare, ma oramai, non posso cancellarlo.

A scuola si era guastato il riscaldamento e ci fecero tornare a casa. Molti miei amici ne approfittarono per andare un po’ in giro, ma io avevo lasciato in sospeso un lavoretto e ne volevo approfittare per terminarlo.

Torno a casa fischiettando e molto contento, perché anche mia madre so che è ancora in casa, il suo turno di lavoro inizia nel pomeriggio.
 Uso le mie chiavi e mi accorgo subito che c’è qualcosa di diverso.

Sento mia madre piangere nella sua camera da letto e la sua voce singhiozzante che dice “non ti vergogni proprio di quello che mi hai fatto e che mi fai? Con che coraggio torni in questa casa? Se ne  avessi la forza ti pugnalerei dritto al cuore!”

Non ho avuto esitazioni. Sono corso da lei e quello che ho visto mi ha gelato il sangue.

Mio nonno, suo padre, la stava violentando! Ed ho capito.
In un attimo ho capito.
Ho capito perché si era allontanata dai suoi genitori, ho capito quanto grande è stato il suo amore per me, avrebbe potuto sbarazzarsi di me ancora prima della mia nascita, invece mi ha amato nonostante tutto, ho capito la sua sofferenza e la sua solitudine, la sua vergogna e il perché non avesse mai cercato un altro uomo, ho capito che quell’uomo l’aveva distrutta e che non aveva mai smesso di farlo.

E mentre lui, con fare strafottente mi guarda, sento montare dentro di me una rabbia incontenibile. E’ stato il suo sorrisetto che mi ha fatto scattare la molla, se se ne fosse andato, forse non sarebbe successo niente, ma lui ha voluto dimostrare anche a me la sua superiorità, ed io, non ci ho visto più.

Una freddezza mi era entrata dentro. Non sentivo più niente, non la voce di mia madre che mi chiamava, non la voce di mio nonno che rideva, non sentivo altro che freddo.
Sono andato di corsa nella mia camera, ho preso la mia mazza da baseball e, prima gli ho spezzato la schiena, finchè ha smesso quel suo ghigno mostruoso, e poi gli ho frantumato la testa. Non c’è rimasto più niente, l’ho colpito, mi hanno detto, almeno 30 volte, ma io non lo ricordo.
Ricordo solo il sollievo che ho provato quando mi sono reso conto che l’avevo ammazzato.

Davanti a quel lago di sangue, piano piano sono ritornato in me.
Mia madre mi ha preso fra le braccia e continuava a ripetermi “perdonami, perdonami” ma io sapevo che non era colpa sua, non di mia madre, ma la sua di madre cosa aveva fatto nel frattempo?
Avrei voluto avere fra le mani anche mia nonna, e avrebbe fatto la stessa fine di suo marito, lo avrei fatto alla prima occasione.

Ero sporco di sangue, avevo il fiato corto come se avessi corso, e, soprattutto, non ero pentito.

Mio nonno spiaccicato sul pavimento, mia madre in lacrime ed io, prendevo coscienza di quello che avevo commesso, e mi sentivo sollevato, non mi sono mai potuto sentire colpevole. E ancora oggi sono dello stesso parere, per questo sconterò fino in fondo la mia pena, perché non ho mai mostrato pentimento, e mai lo farò.

Mia madre tentò di prendersi la colpa dell’accaduto, ma la situazione era talmente evidente che non ci volle molta fatica per capire che ero io il colpevole. Durante il processo, ero minorenne, ma non ebbi sconti di pena.

Anche in quei momenti mia madre mi fu sempre vicina. Si aggiunse ai suoi tormenti anche il rimorso per la mia condanna. Le imposi di non dire a nessuno il motivo del mio gesto, nessuno doveva sapere quello che aveva subito, anche per questo non ho avuto attenuanti, non hanno trovato un movente diverso dalla mia crudeltà.

Guardo quell’immagine appesa alla parete e mi pare di sentire il calore di quelle braccia amorevoli, le braccia di mia madre, i suoi baci e il suo amore che mi inonda in ogni più piccola parte.
Ora, non ho più niente, anche lei se n’è andata, un cancro crudele e cruento se l’è portata via in pochi mesi e sono rimasto proprio solo. Non mi hanno nemmeno permesso di andare al suo funerale. Anche Lucia non c’è più.

Cosa mi succede? Sto piangendo? Lacrime solitarie ed amare mi bagnano le guance. Mi manca molto mia madre e mi distrugge sapere il dolore che ha provato per me, più del fatto che è morta da sola, senza nessuno che le tenesse la mano.

Mi alzo di scatto e strappo dal muro quell’immagine che mi ha portato tanti ricordi e tanti dolori e la getto dritta ne water. Non voglio niente a pungermi l’anima.

Sei sempre nel mio cuore mamma. Ti ho mandato dei fiori sulla tomba.
Appena posso te li porterò di persona. Riposa finalmente in pace.

                                                 Tuo Francesco Matteo.


 diritti riservati di Milena Ziletti - immagine dal web





















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